Donne nella migrazione: alta la percentuale di abusi multipli durante i percorsi migratori

Agenpress – All’interno del progetto SWIM – Safe Women in Migration, finanziato dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione Europea (2014-2020), è stata svolta la prima indagine quanti-qualitativa rivolta a operatori e gestori di centri di accoglienza presenti nei 5 Paesi coinvolti nel progetto stesso (Italia, Francia, Gran Bretagna, Svezia e Romania) con lo scopo di indagare il fenomeno della violenza di genere.

Fondazione L’Albero della Vita con questo progetto intende tutelare quella fascia più vulnerabile di persone coinvolte nei percorsi migratori: le donne adulte e minorenni.

Il progetto SWIM” dichiara Ivano Abbruzzi – presidente di Fondazione L’Albero della Vita – “intende supportare le donne durante tutto il percorso migratorio, soggetti maggiormente esposti alla tratta di esseri umani, allo sfruttamento, alla discriminazione e all’abuso, specialmente quando viaggiano da sole. Tali violenze possono verificarsi in diverse fasi del percorso migratorio: a volte già nel paese di origine, altre volte durante il viaggio o anche una volta arrivate in Europa. Con questa ricerca abbiamo voluto indagare la scarsa conoscenza del fenomeno e la difficoltà di denuncia di tali violenze”, prosegue Abbruzzi, “che dipende dalla sfiducia nelle autorità, dalla colpevolizzazione, dal timore di conseguenze, ma anche dallo scarso accesso che le donne straniere hanno alle informazioni sui diritti riconosciuti in ciascuno degli Stati membri dell’UE. Le madri, inoltre spesso non denunciano le violenze per il timore di essere allontanate dai propri figli. È nostro dovere e di tutto il sistema di accoglienza tutelare sia le figure genitoriali sia i minorenni”.

“Le donne migranti”, aggiunge Vincenzo Cesareo – Segretario Generale della Fondazione ISMU – “soprattutto quelle che viaggiano da sole nella tratta libica, corrono maggiormente i rischi ed i pericoli di subire violenze. Ad oggi le donne migranti che arrivano via mare rappresentano il 9,9%* dei migranti sbarcati, ma il fenomeno delle violenze sta assumendo dimensioni importanti. Come emerge dalla ricerca che abbiamo condotto nell’ambito del Progetto SWIM, secondo gli operatori del sistema di accoglienza dei Paesi coinvolti, quasi la totalità delle donne migranti provenienti dall’Africa hanno nel loro viaggio subito una qualche forma di violenza”.

La ricerca quantitativa, condotta da Emanuela Bonini ricercatrice di Fondazione ISMU, ha indagato un campione di 437 operatori (70% donne) di un’età compresa tra i 33 e i 45 anni (35%) in possesso, per il 57%, di un titolo accademico (o equivalente), soprattutto nell’ambito educativo (in Italia il 39% degli intervistati ha un diploma di istruzione secondaria superiore).

Il primo aspetto che indaga la survey è la necessaria relazione di fiducia che si instaura tra gli operatori e le donne migranti (Grafico 1 dell’allegato). I professionisti del sistema di accoglienza dei Paesi coinvolti nel progetto Swim dichiarano, infatti, che le donne migranti, dopo aver instaurato un rapporto di fiducia, parlano più facilmente della loro vita nel Paese di origine, più di quanto riescano a parlare del loro viaggio, evidenziando l’aspetto doloroso di tale esperienza e confermando quanto sta emergendo sempre più frequentemente a proposito delle violenze che i migranti, e le donne nello specifico, vivono durante il viaggio (in particolare nel passaggio dalla Libia).

*fonte UNHCR dati aggiornati a gennaio 2019.

Le difficoltà maggiori nella costruzione della relazione con le donne migranti vittime di violenza vengono identificate nella mancanza di competenza specifica sul tema delle violenze di genere e in particolare sulla gestione dei casi complessi (rispettivamente: Italia 89%, Francia 85%, Gran Bretagna 91%, Svezia 75%). La costruzione di una relazione di fiducia richiede quindi tempi molto lunghi, anche a causa della distanza culturale percepita sia dalle operatrici che dagli operatori (rispettivamente: Italia 41%, Francia 46%, Gran Bretagna 60%, Svezia 42%) e delle differenze nelle esperienze di vita. Nonostante ciò i professionisti dei sistemi di accoglienza vivono una forte empatia con le donne migranti con cui lavorano, per questo non è così difficile per loro capire quello che pensano, (rispettivamente: Italia 43%, Francia 35%, Gran Bretagna 65%, Svezia 66%), sentono (rispettivamente: Italia 50%, Francia 40%, Gran Bretagna 61%, Svezia 73%), o comprendere le scelte che fanno.

La maggior parte delle donne che si è interfacciata con gli operatori intervistati ha subito forme multiple di violenza agite da uomini conosciuti e trafficanti nel Paese di origine o durante il viaggio (Grafico 2 e 3 e Tabella 1 dell’allegato). La violenza fisica, sessuale e psicologica è presente in maniera significativa in tutti i Paesi. I casi di tortura sono stati rilevati soprattutto in Francia (49%) e in Italia (38%), mentre casi di mutilazioni genitali e matrimoni forzati sono frequentemente rilevati dagli operatori francesi; ciò dipende in parte dal paese di provenienza delle donne richiedenti asilo e rifugiate, dove queste specifiche forme di violenza contro le donne sono maggiormente attuate. Le violenze di genere legate all’orientamento sessuale dei migranti sono rilevate in misura più contenuta particolarmente in Italia (10%) e in Svezia (18%). Le differenti forme di violenza sono perpetrate più frequentemente da uomini che sono vicini alle donne migranti e che fanno parte del proprio nucleo familiare soprattutto per quanto rilevato dalle operatrici francesi e svedesi ed in misura leggermente minore dalle britanniche.

Per le operatrici italiane invece i soggetti principali delle violenze sono i trafficanti. I familiari sono riconosciuti come responsabili di “offrire” ai trafficanti le donne nel percorso migratorio in maniera rilevante in Francia e Svezia, meno in Italia. In base alle testimonianze delle operatrici di tutti questi paesi coinvolti le violenze hanno luogo prevalentemente nel Paese di origine, mentre il 28% delle operatrici italiane individua nel viaggio il momento in cui le donne migranti risultano essere più a rischio (62%). Questo dipende almeno in una certa misura dalle tratte migratorie utilizzate dalle donne migranti per arrivare nei diversi paesi coinvolti nel progetto SWIM.

Per quanto riguarda la vulnerabilità, le donne migranti richiedenti asilo e rifugiate sono viste come fortemente a rischio di subire violenza di genere da circa il 40% degli operatori italiani, francesi e svedesi, mentre la percentuale per gli operatori inglesi scende ad un quarto dei rispondenti.

Complessivamente gli operatori di tutti i Paesi pensano che le donne migranti subiscano violenze più frequentemente di quanto emerge. Gli operatori italiani (82%) pensano che le donne migranti provengano da un paese la cui cultura prevede la violenza di genere, mentre per gli operatori degli altri Paesi l’accordo nei confronti di questo tipo di argomentazione scende intorno al 50% o addirittura al 30% per gli operatori svedesi. Inoltre, nella percezione degli operatori le donne migranti sembrano essere abituate a livelli significativi di violenza di genere, mentre tutti gli operatori concordano sul fatto che il fenomeno sia ancora sottostimato.

La ricerca qualitativa (Tabella 2 dell’allegato) del Progetto SWIM è stata realizzata da Lia Lombardi, ricercatrice di Fondazione ISMU e docente a contratto presso l’Università degli studi di Milano: sono state somministrate 50 interviste semi-strutturate ai gestori dei centri di accoglienza dei paesi partner di progetto (8 in Gran Bretagna, 10 in Svezia, 10 in Francia, 5 in Romania, 17 in Italia). I temi esplorati attraverso le interviste sono stati: la tipologia delle strutture di accoglienza, le caratteristiche dei/delle migranti ospiti dei centri, i corsi di formazione offerti da parte delle strutture e i bisogni formativi degli operatori e operatrici. Uno dei principali obiettivi della ricerca qualitativa è stato quello di rilevare i bisogni formativi degli operatori rispetto alla violenza di genere verso le donne richiedenti asilo e rifugiate. Emergono differenze significative tra i paesi e i centri di accoglienza sia per quanto riguarda l’organizzazione e la gestione dei centri stessi sia rispetto all’erogazione dei servizi, compresi quelli relativi alla formazione degli operatori e alla stessa composizione dello staff.

Le risposte rispetto alle tipologie dei centri non sono univoche perché le tipologie coinvolte sono differenti, tanto che alcune risposte dei partner Rumeni e Britannici, sono venute a mancare. Le strutture in Gran Bretagna si configurano per l’accoglienza di persone migranti siriane facenti parte del programma di resettlement e per l’accoglienza di particolari gruppi di migranti particolarmente vulnerabili, come le donne. La Svezia mostra, una tipologia di accoglienza “diffusa” strutturata in appartamenti, centri di piccole dimensioni, hotel (9 su 10). Francia e Italia mostrano strutture simili, suddivise tra centri straordinari di accoglienza per richiedenti asilo (CAS per l’Italia e CPH – Centre Provisoire d’Hebergement – per la Francia) e strutture di reinsediamento per rifugiati/e, corrispondenti indicativamente allo SPRAR italiano. Emerge inoltre una prevalenza di centri di grandi dimensioni in Francia (6/10) con un numero complessivo di 6.300 posti, in Italia (10/18) con un numero complessivo di circa 2.800 posti, in Romania (4/5) con un numero complessivo di circa 1.000 posti disponibili. La maggior parte dei centri ospita sia uomini che donne, famiglie e genitori singoli (prevalentemente madri con figli). In buona parte dei casi le stanze e i servizi igienici sono separati tra uomini e donne, così come gli appartamenti che ospitano solo uomini, solo famiglie o solo donne e donne con figli (Svezia, Francia, Italia).

Anche la composizione dello staff mostra significative differenze: per esempio, lo staff dei centri italiani è composto in grande prevalenza da educatori/educatrici (132), da volontari/e (226) e da un numero molto importante di mediatori e mediatrici linguistico/culturali, figure quasi inesistenti nei centri degli altri paesi. I centri francesi impiegano un numero importante di assistenti sociali (38), di assistenti legali (22) e di volontari (68) più una cinquantina di altre figure. I gestori britannici indicano invece come figura principale quella del “Casework Coordinator” (28) e del Service coordinator (7). I gestori svedesi e rumeni indicano un numero consistente di operatori senza distinguerne le figure professionali (216 per la Svezia e 55 per la Romania).

Qui maggiori dettagli sul progetto SWIM che interviene con tre tipologie di azioni diverse rivolte agli  operatori dei centri di accoglienza e ai professionisti del Sistema di protezione e supporto alla violenza di genere (formazione implementata attraverso l’utilizzo di un Toolkit creato ad hoc sulla base dell’indagine qualitativa e quantitativa realizzata nel progetto) alle donne migranti e richiedenti protezione internazionale che vi risiedono e alle istituzioni che si occupano di accoglienza.

Il Report della ricerca quantitativa, condotta da Emanuela Bonini, è disponibile a questo link, il Report della ricerca qualitativa condotta da Lia Lombardi è disponibile a questo link, mentre la dispensa per gli operatori a questo link.

Il progetto SWIM è implementato in 5 Paesi europei (Francia, Italia, Regno Unito, Romania e Svezia) da una partnership composta da 7 Organizzazioni: Fondazione L’Albero della Vita (Coordinatore di progetto), Croce Rossa Italiana, Fondazione ISMU, Croce Rossa Britannica, France Terre D’Asile, Croce Rossa Svedese, Alternative Sociale Association.

 

 

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