AgenPress – È morto nella sua casa di Trieste, all’età di 108 anni, Radio Slovenija, Boris Pahor, scrittore sloveno triestino di fama internazionale che ha scritto della propria esperienza del fascismo e delle sofferenze nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale.
Tutti (o quasi tutti) partono inevitabilmente da un campo di concentramento di Natzweiler-Struhof.
Arruolato e inviato al fronte in Libia durante la Seconda guerra mondiale, con l’armistizio del ’43, Pahor diserterà l’autorità militare tedesca, aderirà al Fronte di Liberazione nazionale sloveno ma verrà arrestato e consegnato alla Gestapo. Trasferito a Dachau, sarà internato in diversi campi di concentramento diversi, dove riuscirà a sopravvivere grazie alle mansioni di infermiere. “Necropolis”, sul suo internamento in un Lager nazista, è un capolavoro del Novecento europeo.
Finita la guerra, tornò nella città natale, aderendo a numerose imprese culturali dell’associazionismo cattolico e non-comunista sloveno. Negli Anni ’50, diventa il redattore principale della rivista triestina Zaliv (Golfo) che si occupa, oltre a temi strettamente letterari, anche di questioni di attualità. In quel periodo, Pahor continua a mantenere stretti rapporti con Edvard Kocbek, ormai diventato un dissidente nel regime comunista jugoslavo. I due sono legati con uno stretto rapporto di amicizia. Nel 1975 Pahor pubblica, assieme all’amico triestino Alojz Rebula, il libro “Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca“.
Nel libro-intervista, pubblicato a Trieste, il poeta sloveno denuncia il massacro di 12.000 prigionieri di guerra, appartenenti alla milizia anti-comunista slovena (domobranci), e i crimini delle foibe perpetrati dal regime comunista jugoslavo nel maggio del 1945.
Il libro provoca durissime reazioni da parte del governo jugoslavo. Le opere di Pahor vengono proibite nella Repubblica Socialista di Slovenia e a Pahor viene vietato l’ingresso in Jugoslavia. Grazie alla sua postura morale e estetica, Pahor diventa uno dei più importanti punti di riferimento per la giovane generazione di letterati sloveni, a cominciare da Drago Jancar. Le sue opere, scritte in sloveno, sono tradotte in francese, tedesco, serbo-croato, ungherese, inglese, spagnolo, italiano, catalano e finlandese.
Da sempre difensore delle libertà ha messo al centro dei suoi libri, una trentina tra narrativa e saggistica tradotti in varie lingue, gli umiliati e gli offesi. Vincitore di numerosi premi letterari, nel 2007 è stato insignito della Legion d’onore e nel 2020 del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Con Boris Pahor si spegne una delle voci più importanti e illustri della tragedia della deportazione nei lager nazisti, narrata in “Necropoli”, ma anche delle discriminazioni contro la minoranza slovena a Trieste durante il regime fascista. Testimone in prima persona delle tragedie del Novecento, l’autore ha scritto una trentina di libri tradotti in decine di lingue, tra cui “Qui è proibito parlare”, “Il rogo nel porto”, “La villa sul lago” e “La città nel golfo”.