I Diraq: dai piccoli live club ai palcoscenici di Arezzo Wave e Sanremo Rock

AgenPress. Iniziamo parlando un po’ di voi e della vostra storia. Quando è nata la band? E da chi è composta? E che genere proponete nei vostri concerti?

Siamo una band umbra composta da quattro musicisti, Edoardo Commodi – Francesco Mengoni – Federico Sereni e Daniel Abeysekera. Abbiamo già alle spalle oltre undici anni di attività e in questo grande lasso di tempo abbiamo subito alcuni cambi di formazione, avvenimenti per i quali occorre molta determinazione, flessibilità e affiatamento per continuare ad esistere e concretizzare il lavoro in maniera credibile e coerente, anche perché la nostra missione è stata fin dall’inizio quello di scrivere musica originale, creare un sound il più possibile riconoscibile attraverso un linguaggio che possa raccontare qualcosa di noi stessi. Dal 2016 la nostra formazione si è stabilizzata sui quattro componenti che siamo oggi, e di base suoniamo musica Rock con sonorità psichedeliche e mediterranee, ma siamo musicisti che hanno tentato di curare la propria estetica negli anni, ascoltando e vivendo la scena musicale in maniera molto attiva con attenzione al contemporaneo. Nessuno di noi proviene dal conservatorio e, anche se di certo riconosciamo che lo studio dello strumento sia una cosa importante, siamo coscienti anche del fatto che nella musica extraclassica quasi nessuno, anche fra i musicisti più rilevanti, è particolarmente “scolarizzato”, questo perché non esistono corsi o seminari per essere artisti, di base un artista deve fare arte, con la propria visione e sensibilità, e per farlo ci arriva come meglio crede.

Come è stata la vostra gavetta, siete partiti dalle solite cantine a suonare per pochi intimi per poi arrivare piano piano ai grandi palchi o il successo è arrivato subito?

Siete gentili, ma la parola “successo” in realtà non ci si addice molto, se per successo si intende un certo tipo di consenso popolare o numerico. Negli anni abbiamo avuto l’occasione di fare cose belle, pubblicare dischi, calcare alcuni palchi di cui in futuro ci si potrà comunque vantare con i nipoti, ma ancora oggi ci muoviamo prevalentemente nei piccoli live club, ed in realtà ci va benissimo così. Il punto focale per noi è avere la possibilità di esibirci, portare ad un pubblico interessato la nostra musica. Ovviamente nel tempo abbiamo sempre cercato di investire su noi stessi; da un paio d’anni abbiamo una nostra sala prove, la Pepita Studio, che è anche studio di registrazione aperto al pubblico, dove possiamo lavorare alle nostre produzioni con la massima tranquillità e libertà. Abbiamo un’etichetta discografica, come JAP Records che ci segue ed apprezza il nostro percorso, e di cui abbiamo grande considerazione. Queste sono tutte che ci danno un po’ più autorevolezza rispetto al passato, cose che si guadagnano con il tempo e l’investimento.

Tra poco più di un mese andrete a Sanremo per le finali di Sanremo Rock, mentre a novembre sarete sul palco ad Arezzo per le finali di Arezzo Wave. Quali sono gli obiettivi che vi siete posti e soprattutto quali sono le speranze che riponete in questi due eventi, che vi daranno comunque una certa visibilità.

Sono stati mesi in cui il nostro nome ha avuto una risonanza mediatica come mai prima d’ora, e ci fa piacere, sicuramente questi traguardi sono il frutto del lavoro che ci ha portati alle registrazioni di “Outset”, il nostro ultimo disco, uscito ad ottobre 2019 per Jap Records e prodotto da Antonio Gramentieri. Un lavoro che abbiamo desiderato con forza, che sta ottenendo bei feedback da critica e pubblico, un disco che ci sta aprendo nuove strade. E’ per noi un bel privilegio rappresentare la scena Umbra per Arezzo Wave e partecipare alle finali nazionali di Sanremo Rock, sicuramente l’obiettivo principale è quello di goderci queste esperienze al meglio, poi anche cercare di tradurre questo piccolo interesse mediatico che si è creato nei nostri confronti, in più pubblico reale che segue la nostra proposta.

Suonate già da tempo, immagino che vi saranno capitate situazioni strane o particolari, vi va di raccontare qualche aneddoto?

Quando si gira per concerti ci capitano spesso cose strane, tipo bruciare un labbro a un noto bluesman di Chicago, essere abbandonati dal nostro furgone a Eboli, con conseguente interruzione del tour e viaggio della speranza in treno con bagagli e strumenti. Aver utilizzato un trancio di pizza bianca come cuscino per tutta la notte, rischiato il linciaggio per un battibecco con degli Harleysti. Aneddoti buffi che accadono quando si ha come obiettivo quello di portare in giro la propria musica, vedere posti nuovi, conoscere un po’ più il mondo e noi stessi. Di base siamo persone molto socievoli, ci piace viaggiare e conoscere cose nuove.

La vostra band è composta da 4 persone, sicuramente con caratteristiche e personalità diverse, potete descriverle? Compresi pregi e difetti naturalmente.

Per scrivere una musica che voglia allontanarsi dai clichet, per cercare di essere più originali possibile, potrebbe essere utile avere un certo tipo di conflittualità interna fra i componenti di una band, ovviamente nella misura in cui sia presente un rispetto e una stima reciproca di base, a livello musicale ma anche individuale. Questo tipo di conflittualità è molto presente tra di noi, in tutti e due i livelli citati sopra c’è sempre stata molta varietà in questo senso, ma una volta trovato il giusto bilanciamento è una cosa che ci è stata utile per provare a rendere interessante il nostro sound.

Come a tutti, quando andate a letto la sera, vi capiterà di sognare. C’è un sogno particolare e ricorrente che ritorna spesso nella vostra testa?

Siamo oramai abbastanza grandi per essere disincantati e realisti quanto basta, certo, quando eravamo ragazzi la concezione del successo e del sogno era differente da quella che abbiamo ora e, piano piano che si va avanti, si arriva a trent’anni e ci si rende conto che il sogno in realtà lo stiamo già vivendo, e sta proprio nella possibilità di continuare a fare la nostra musica insieme e alimentare la nostra carriera. Difficilmente potremmo mai riempire uno stadio con un pubblico che canta all’unisono le nostre canzoni, tuttavia non sempre un musicista ha questo tipo di obiettivo, per noi forse non lo è stato mai, ma ultimamente ci capita di vedere un pubblico trasversale di persone dai 20 ai 45 anni che vengono ai nostri live e ci ascoltano con interesse, magari comprano una copia fisica del disco, ballano o cantano qualche pezzo. Ecco, questa è una cosa che non va data per scontata ed è la migliore benzina possibile per continuare a vivere nel sogno con un po’ di concretezza.

Danilo Bazzucchi

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