Nuovo Atlante delle Arti – Tre. Progetto Artistico Internazionale ideato e diretto dal Prof. Carlo Franza

AgenPress. La mostra dal titolo “L’istante e la sua luce” dell’artista ROBERTO ROSSO che rientra in un progetto artistico  internazionale, “NUOVO ATLANTE DELLE ARTI”, ideato e diretto dal Prof. Carlo Franza (Storico dell’Arte Moderna e Contemporanea e Critico de IL Giornale fondato da Indro Montanelli) per la FONDAZIONE ATM di MILANO, istituzione attestata internazionalmente, che focalizza l’attenzione su talune figure in progress della nuova stagione artistica europea.

L’esposizione curata dal Prof. Carlo Franza, illustre Storico dell’Arte di piano internazionale, che firma anche il testo, riunisce un certo numero di opere che compongono una vera e propria installazione, capace di campionare il percorso singolare di questo illustre artista fotografo italiano. All’inaugurazione ci saranno i saluti del Presidente e una prolusione del Prof. Carlo Franza, curatore della mostra, unitamente alla partecipazione di intellettuali italiani e stranieri e di numerosi collezionisti.

Scrive Carlo Franza: Il tentativo di leggere fenomenologicamente la fotografia conduce inevitabilmente all’ammissione dello scacco che essa genera, mostrando l’impossibilità di una rappresentazione sincera del reale. L’obiettivo è sempre intenzionalmente rivolto a un lato dell’evento che “prende di mira” una “parte” che non soltanto non è l’intero, ma che non può neanche rappresentarlo. Questa impotenza della fotografia, che la rende statutariamente inadeguata e imprecisa rispetto al reale, è anche alla base della sua potenza.

La fotografia rimarrà sempre una traccia, un accenno, una sfida dello sguardo a colmare il vuoto dell’invisibile, a superare l’assenza dell’osservatore con un’azione di costruzione – di creazione dell’immaginario – da parte di quest’ultimo. La leggibilità dell’immagine fotografica, che permette l’azione decodificante, coinvolge totalmente il fruitore, non soltanto perché questi necessita della sua esperienza passata e del suo bagaglio concettuale come pre-dato necessario per poter disambiguare la fotografia nel presente, a cui essa è consegnata, ma anche perché lo spinge sempre, come ben sostiene Didi-Huberman, a un atto di immaginazione: “immaginare ciò che non è nella memoria dell’osservatore o immaginare il momento vissuto, oggettivato nella foto, con un movimento di distacco, di spoliazione, di estrazione dalla propria soggettività.

È proprio questa immaginazione che innesca il processo conoscitivo poiché «per sapere occorre immaginare”.

L’immagine può essere la rappresentazione di qualcosa o di qualcuno, anche raffigurazione realistica o astratta oppure visione rassomigliante alla realtà; non è mai fisica, poiché è sempre una percezione visiva e, potendo essere anche mentale, non necessita di un supporto materiale. Ineliminabile affinché si possa cogliere un’immagine è invece la necessità di una mente che la pensi, prima ancora che due occhi che la vedano. Quello che viviamo è infatti il tempo della visual culture in cui è preminente l’immagine tecnica, la cui potenza consiste nel calamitare l’attenzione dell’osservatore, dirigendone o condizionandone la decodifica. La seduzione dell’immagine, infatti, ha un tale effetto sull’uomo da “adescarlo” nella morsa della sua rete illusoria. Ne era consapevole anche Feuerbach. Roland Barthes suppone che, sebbene nella fotografia il messaggio sia all’apparenza senza codice, in realtà anche in essa esista un livello connotativo che non esaurisce l’informazione analogica mostrata dal suo lato denotativo in modo evidente.

La connotazione nella fotografia è dunque un’ulteriore scrittura, una retorica della fotografia, un codice che limita
le possibili interpretazioni dell’osservatore, che la imprigiona entro dei confini di senso, che controlla il processo di
significazione. Barthes ritiene che la lettura della fotografia sia sempre “storica” ovvero condizionata dalla situazione culturale, sociale e politica dell’interpretante. Sono dunque due le direzioni della decifrazione: quella “imposta” dal cifrante attraverso le tecniche e quella seguita dal decifrante a partire dalle sue categorizzazioni. Il filosofo francese inoltre individua tre possibili livelli di connotazione: percettiva, cognitiva e ideologica o etica. La prima è determinata dal modo naturale dell’individuo di leggere un’immagine: “Non vi è percezione senza categorizzazione immediata, la fotografia viene verbalizzata nel momento stesso in cui è percepita; o meglio: non viene percepita se non verbalizzata”. La seconda dipende dalla cultura e dalla conoscenza dell’interpretante che coglie nei dettagli dell’immagine un significato aggiuntivo che altrimenti non coglierebbe.

La terza, quella ideologica, è la più infida poiché “introduce ragioni o valori nella lettura dell’immagine”. È chiaro che si suppone un effetto depotenziato di qualsiasi connotazione se si dà per scontata la capacità critica del soggetto interpretante. Il punto che qui però si vuole sottolineare è che, allo stato attuale, non è più possibile un’affermazione siffatta.

L’ingombro dell’immagine tecnica è tale che ha vinto il suo apparente lato denotativo che la fa apparire valorialmente indifferente e indifferenziata. L’osservatore è oggi uno spettatore e un consumatore prima ancora che un interpretante e per prima cosa “consuma” -o se si vuole, “divora” senza più riconoscerne il sapore che è rientrato nell’ovvio – messaggi ideologici ed eticamente svuotati con cui vengono cifrate le immagini mediate dallo spettacolo e potenziate dall’aspetto ludico. “Vedere non è credere ma interpretare”, infatti. Un’altra caratteristica della percezione è che guardare non è sufficiente per vedere: occorre anche sapere che cosa cercare, oltre che prestare attenzione a ciò che si guarda. Occorre dunque anche imparare a vedere. Questo dimostra l’importanza di una cultura della visione. Flusser ritiene che l’umanità sia giunta in quest’epoca a un nuovo paradigma ermeneutico a cui corrisponde una nuova forma di pensiero. Una fase in cui imperano le immagini tecniche che diventano superfici “piene di dèi”. Il fotografo non asservito si dovrà sforzare di produrre informazioni impreviste, di estrarre, cioè, qualcosa dall’apparecchio e di mettere in immagine ciò che non figura nel suo programma. Una filosofia della fotografia è necessaria affinché il fotografo recuperi la sua coscienza critica e trovi il suo spazio di libertà “lottando” contro le possibilità dell’apparecchio, per fotografare l’improbabile, l’imprevisto che sfugge alla manipolazione dell’oligarchia che controlla la decodificazione del simbolo attraverso la programmazione. In tal modo, per dirla con Flusser, si avrà una fotografia informativa e non ridondante. Si avrà una fotografia e non una semplice immagine tecnica.

La fotografia infatti è l’impegno dello sguardo che cerca di cogliere il senso dello spazio e dei suoi oggetti, il loro segreto letteralmente indicibile e tuttavia osservabile, immaginabile. In tal senso opera una vera e propria epoché (ἐποχή, sospensione), una sospensione dell’oggettività per permetterci di comprendere ciò che appartiene a noi della realtà che ci sta di fronte e ciò che invece è altro da noi. Insomma induce a una vera e propria azione fenomenologica che ci rende protagonisti attivi del reale.

Il lavoro di Roberto Rosso è in parallelo con un altro illustre fotografo, Jan Saudek, ceco di origine ebraica, il quale è un fotografo concettuale. Non soltanto costruisce la sue foto ma ritocca l’immagine attraverso tecniche di postproduzione o modalità pittorialiste. Eppure non controlla il messaggio. Sovverte il reale conosciuto, piuttosto, oppure avverte che è una nostra costruzione. Hungry For Your Touch (1971) è forse l’emblema di questa costruzione del mondo che in noi è inconsapevole ma che permette la visibilità dell’inemendabile. Che quella di Saudek sia fotografia in senso filosofico si denota dalla sua architettura, così come oggi lo vediamo in Roberto Rosso, che si è addentrato nel mondo del food. Il soggetto non è mai l’unico protagonista della foto. Nella costruzione dell’immagine ogni ente presente contribuisce all’emersione di quello che Ronald Barthes chiamava punctum. Il suo coglimento e la sua interpretazione dipendono da noi. Quello che, guardando il prodotto fotografico di Roberto Rosso, chiamo “l’istante e la sua luce”. La fotografia ha in sé, dunque, una condizione strabica, folle, che è la sua condizione naturale, allucinatoria, iconica: ciò che è stato non è qui; è qui ciò che non è più. L’elemento che punge, che colpisce, che ferisce – il punctum – di una fotografia è lo scarto determinato dalla convivenza di questi estremi: una contraddizione che si risolve in un unico segno da cui lo spectator è travolto, modificato, rapito. Il punctum però non è coglibile in tutte le foto, ma soltanto in quella che Barthes chiama la foto essenziale. La fotografia che conserva – come quella essenziale – è un’opera in movimento, per dirla con Eco, il cui senso rimane sempre aperto poiché è passibile di un’infinità di letture. Ha una funzione suggestiva ed estetica «in cui il rimando semantico non si consuma nel riferimento al denotatum, ma si arricchisce continuamente ogni qual volta sia fruito godendo il suo insostituibile incorporarsi nel materiale di cui si struttura; il significato rimbalza continuamente sul significante e si arricchisce di nuovi echi; e tutto questo non avviene per un miracolo inspiegabile ma per la stessa natura interattiva del rapporto gnoseologico, tale quale è spiegabile in termini psicologici, intendendo cioè il segno linguistico in termini di “campo di stimoli”.

La distanza, l’assenza, la costruzione, la manipolazione, la presenza, la riduzione, la contraffazione, la copia, l’imitazione sono particolarità sempre riferibili al reale, su cui la fotografia costruisce dunque le sue caratteristiche tipologiche e stilistiche. Essa si comporta esattamente come un’immagine mentale rispetto al suo oggetto. L’oggetto intenzionale della fotografia è il reale, su di esso il fotografo Roberto Rosso lancia le sue “esche intenzionali”, quello che trae può anche distanziarsene totalmente, ma è comunque in quel mare che pesca. La fotografia è il modo di pensare la realtà del fotografo.

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