Guerre e crisi climatica sempre più legate nelle nuove rotte migratorie

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AgenPress. Un contributo di A Sud al Dossier statistico immigrazione 2025 di IDOS fa emergere come i conflitti armati siano la crescente concausa della fuga da molti Paesi interessati da disastri ambientali. Come conferma anche una ricerca italiana.

La combinazione tra la crisi climatica e i conflitti armati sta incidendo sempre di più nel tracciare nuove rotte migratorie. È quanto emerge da una lettura dell’associazione A Sud contenuta nel Dossier statistico immigrazione 2025, realizzato da IDOS e la cui presentazione è prevista per il prossimo 4 novembre.

Il capitolo inizia evidenziando un fenomeno di solito poco considerato: se la Terra si surriscalda è anche per l’impatto dei conflitti armati e delle loro enormi quantità di emissioni di gas serra nell’atmosfera. Secondo l’ong britannica Cebos, il settore bellico si classificherebbe al quarto posto per emissioni su scala globale, con una percentuale del 5,5%. Si tratta di una stima, dato che questo ambito non rientra nelle negoziazioni sul clima e rimane in una zona d’ombra.

Ma, come detto, il legame delle guerre con il clima, oltre a incidere su quest’ultimo, condiziona soprattutto le migrazioni. Sebbene la prassi sia ancora quella di distinguere tra diverse categorie di persone migranti, oggi le cause degli spostamenti sono sempre più interconnesse.

Secondo le stime di una fonte qualificata come l’Idmc, il Centro internazionale di monitoraggio sul clima con sede in Norvegia, nel 2024 sono stati 45,8 milioni gli sfollati interni per disastri naturali e altri eventi legati ai cambiamenti climatici. Un dato record che segna un’anomalia significativa rispetto agli ultimi 15 anni, in cui la media annuale si è attestata sui 24 milioni.

La nuova tendenza, segnalata nel contributo di A Sud, è che con sempre maggiore frequenza la guerra sta diventando una concausa degli spostamenti o delle migrazioni climatiche. In un’altra ricerca compiuta insieme alla Notre Dame Global Adaptation Initiative, lo stesso Idmc ha evidenziato infatti che più di tre quarti delle persone sfollate per conflitti e violenze viveva in Paesi con un’elevata o molto elevata vulnerabilità ai cambiamenti del clima.

Una conferma di quanto la crisi climatica incida su queste scelte proviene anche dai racconti di 348 persone migranti in Italia, intervistate nell’ambito del progetto di ricerca e advocacy sulla migrazione ambientale e climatica “Le Rotte del Clima”, promosso dal Centro Studi Systasis e da un vasto partenariato multidisciplinare, tra cui Asgi, WeWorld e la stessa A Sud, che ha curato il Report “Migrazioni ambientali e crisi climatica – Edizione Speciale. Le Rotte del Clima” (disponibile online).

Il 69% dei migranti intervistati che, tra le cause della migrazione, ha indicato motivi di studio, lavoro o ricerca di migliori condizioni di vita, collocandosi dunque nella categoria dei migranti economici, ha successivamente incluso, tra i motivi dello spostamento, le mutate condizioni climatiche e il degrado ambientale nei rispettivi Paesi di origine. Tra questi ultimi, ci sono anche Costa d’Avorio, Somalia e Afghanistan, noti principalmente per i disastri umanitari legati ai conflitti armati e all’instabilità politica, ma anche terre martoriate proprio da siccità estrema e desertificazione. Da segnalare come nelle conclusioni dello stesso progetto di ricerca si ribadisca la necessità di “rafforzare la condanna contro le devastazioni ambientali provocate dalle guerre, identificando in modo esplicito un reato come l’ecocidio”.

“Di fronte a un pianeta in fiamme, azzerare le emissioni di gas serra – dichiara Maria Marano, responsabile del Programma Migranti ambientali di A Sud – non è solo una questione ambientale, ma una chiara scelta politica e di priorità per i governi. L’Ue dal canto suo ha scelto un piano di difesa militare, il ReArm Europe, da 800 miliardi di euro, che potrebbe generare circa 200 milioni di tonnellate di Co2 in più all’anno, l’equivalente di quanto emette un Paese come il Pakistan. Purtroppo i governi rigettano l’idea che la pace passi per la sicurezza climatica e che questa possa disinnescare la minaccia di nuovi conflitti”.

“La crisi che stiamo vivendo ci obbliga a rovesciare lo sguardo. Parlare di migrazioni significa riconoscere che la frontiera non è più una linea di separazione da presidiare, ma uno spazio di relazione e responsabilità reciproca: un crocevia in cui l’umanità si interroga sul proprio destino. Le migrazioni non sono una minaccia né un’anomalia da correggere, ma il sintomo di un disordine globale – frutto di crisi climatiche, economiche, sociali e politiche intrecciate – che ci impone di ripensare le priorità collettive e immaginare nuovi orizzonti di giustizia, in cui la cura dell’altro e la salvaguardia del pianeta diventino parte integrante di un progetto condiviso di futuro”, afferma Antonio Ricci, vicepresidente di IDOS.

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