AgenPress. Se quello di Dante è un “itinerarium mentis in Deum”, Bruni non si stanca di seguirlo. È questo il quarto libro su Dante in un anno dedicato alla celebrazione del Dante 700.
Uno studio che continua in una modernità di visioni e di letture che portano ad un legame sempre più stretto tra poesia, filosofia ed escatologica in un Dante riferimento della cultura occidentale. Ma dei libri su Dante che Pierfranco Bruni ha pubblicato nel corso di questi mesi, “L’impossibile pietà di Dante” (Solfanelli editore) ha un fascino singolare che sembra fare la sintesi di tutto il suo lavoro su un Dante dentro la tradizione di quella metafisica della parola molto cara a Maria Zambrano e che Bruni richiama in un modo costante e decisivo.
Ma questo Dante della impossibile pietà è già prefigutato nel precedente saggio dostoevskijano dal titolo “Il sottosuolo dei demoni. Filosofia e dissolvenza” edito sempre nelle eleganti collane della Solfanelli. Qual è il filo rosso che unisce il sottosuolo e l’impossibilità? È l’interrogativo che dovremmo porci alla luce della dimensione ontologica e antropologica del concetto di “patire”. Infatti la trama è nella contestualizzazione di un Dante non solo pre-umanista, ma completamente contemporaneo, perché con Dante le letterature europee, e non solo, hanno dovuto fare i conti.
Pierfranco Bruni crea il “suo” mosaico proprio in una matrice in cui il modello della comparazione diventa fondamentale. Soprattutto il Novecento ha adottato, partendo da Bruno Nardi sino a Massimo Cacciari passando tra Giovanni Gentile, Adriana Mazzarella, René Guenon e Maria Zambrano, appunto, il metodo del riflesso e dello specchio. Ovvero della filosofia aristotelica e della letteratura agostiniana in cui il tempo non è mai un superamento dell’essere e l’essere e tempo è una percezione non analitica ma emozionale. D’altronde Heidegger e Proust insieme a Bachelard e Borges restano i maggiori interpreti dell’intreccio tra letteratura e filosofia in Dante.
La parola e il pensiero sono l’innesto innovativo di una impossibile pietà che diventa la pietà necessaria per dare non un volto, ma una coscienza ad un Dante che resta in amore e in esilio la Profezia e la Grazia, lo sguardo in attesa e la ricordanza che Leopardi ha recuperato nell’enigma della selva-siepe ben tratteggiata da Emanuele Severino e recuperata nell’attrazione-attenzione del saggio di Pierfranco Bruni.
Bruni conduce un “suo” viaggio insieme e dentro Dante iniziando ad osservarlo come “mezzo del cammino” proseguendo come “raggio divino”, soffermandosi sul “patire” come raccoglimento dell’esilio in una metafora ovidiana sino a toccare le sponde di questa sua ultima “impossibile pietà”. Un libro articolato e filosoficamente complesso sin dalle prime pagine, a volte volutamente deviante e sviante nel momento in cui immerge completamente il Divino Poeta nella contemporaneità tra De Andrè e Leonardo Cohen, creando uno spazio dialogante tra l’Oriente e l’Occidente, sino a toccare l’esilio e l’eresia.
Infatti Bruni considera Dante l’esiliato per eresia. Guinizzelli e Cavalcanti fanno da controcanto. Marsilio Ficino diventa il continuatore fino a Vico. Ma Vico, per Bruni, significa Gentile. Il mosaico è l’agorà in cui il pensiero diventa, dunque, linguaggio. Ed è qui che si apre la discussione de “L’impossibile pietà di Dante”: lo studioso sulle orme del pellegrino.
Marilena Cavallo