AgenPress – “Possiamo ritenere fondata l’idea, e la figura di Bellini ne è al contempo conferma ed elemento costitutivo, che all’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel “documento Bologna”, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in Federico Umberto D’Amato (potente capo dell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, ndr) la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo”.
E’ un passaggio delle motivazioni della sentenza che ha portato alla condanna all’ergastolo in primo grado dell’ex Avanguardia Nazionale Paolo Bellini per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna.
“Sia consentito affermare – per quanto si tratti di una notazione non giuridica e che attiene invece a una valutazione di comune buon senso – che gli elementi di prova ravvisabili a carico di Paolo Bellini si palesano, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, come di gran lunga maggiori e più incisivi rispetto a quelli ravvisati a carico di altri soggetti che sono stati condannati per lo stesso fatto”.
“Possiamo ritenere fondata l’idea, e la figura di Bellini ne è al contempo conferma ed elemento costitutivo, che all’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel documento Bologna, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in D’Amato la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo”.
Secondo i giudici della Corte di assise, “ciò che si può dire, all’esito dell’indagine della Procura generale e del dibattimento, e che l’ipotesi sui “mandanti” non è un’esigenza di tipo logico-investigativo, ma un punto fermo. La strage di Bologna ha avuto dei “mandanti” tra i soggetti indicati nel capo d’imputazione, non una generica indicazione concettuale, ma nomi e cognomi nei confronti dei quali il quadro indiziario è talmente corposo da giustificare l’assunzione di uno scenario politico, caratterizzato dalle attività e dai ruoli svolti nella politica internazionale da quelle figure, quale contesto operativo della strage di Bologna”.
“La sentenza conferma la validità delle indagini svolte e la ricostruzione dei gravissimi fatti reato come riportati nella requisitoria e depositati nella memoria del procuratore generale”, il primo commento della procuratrice generale Lucia Musti, il cui ufficio aveva avocato, sviluppato e portato l’indagine a dibattimento dopo l’archiviazione disposta dalla Procura ordinaria nonostante le sollecitazioni dei parenti delle vittime. “La lettura del solo indice della sentenza consente di apprezzare come la Corte d’Assise di Bologna abbia attribuito decisiva importanza al documento “Bologna” il cui rinvenimento ha costituito la svolta nella difficile ricostruzione probatoria del profilo dei mandanti/finanziatori ed organizzatori di secondo livello dell’eccidio”.
Resta il problema di non poter processare i morti. Ma, scrivono i giudici, “l’impunità per morte del reo non chiude necessariamente la sequenza che riguarda il dovere di preservare la memoria, combinando il diritto di sapere delle vittime col complesso di garanzie che possono renderlo effettivo nonostante l’impraticabilità di un giudizio di responsabilità. Resta il punto ineludibile che il diritto alla riparazione e a qualsiasi forma risarcitoria inizia con la verità dei fatti, principio che vale non solo per il processo penale, ma per qualsiasi forma giudiziale in cui un diritto può essere tutelato fino a prescrizione”.