La commovente testimonianza del prete-infermiere ritornato nelle corsie di ospedale

Agenpress. Don Giuseppe Morstabilini, sacerdote della diocesi di Milano ha deciso di rimboccarsi le maniche per sostenere il personale sanitario nella guerra al Coronavirus. Come? Ha deciso di vestire nuovamente la divisa da infermiere. “Io la vivo come una grande unificazione. Per me non c’è differenza nel dare la vita come prete nelle missioni che ho svolto finora in parrocchia o nell’emergenza” così don Giuseppe spiega ad Interris.it la sua decisione.

Don Giuseppe perchè ha deciso di tornare a indossare i panni da infermiere?

“Chiaramente di fronte a questa emergenza che stiamo vivendo ho preso in considerazione una serie di cose. Stavo chiuso in caso e guardando la televisione e leggendo i giornali dove si dava adito a questo virus che avanzava mentre il personale medico era carente, quindi ho aspettato due o tre giorni poi le cose si sono aggravate quindi ho deciso di parlare con il mio vicario generale e gli ho domandato se fosse il caso che io mi mettessi a disposizione. E’ chiaro che erano passati tanti anni da quando ho indossato l’ultima volta la divisa da infermiere. Però il mio vicario mi ha detto che ‘in coscienza era giusto dare la disponibilità poi sarebbero state le autorità competenti a valutare’. Allora ho dato la disponibilità e in meno di ventiquattro ore mi hanno assunto perché erano in emergenza totale”.

In che condizioni sono gli ospedali italiani?
“Io risiedo in provincia di Varese che come è noto è una delle meno colpite in Lombardia. Ma in ogni caso il reparto è pieno perchè l’emergenza è gestita a livello regionale quindi arrivano pazienti di altri comuni e altri ospedali. Qui non siamo così in emergenza. Sono rimasto colpito dalla grande professionalità del personale medico infermieristico. Io sono entrato in ospedale un mese dopo l’inizio dell’emergenza, quindi loro già si erano assestati, avevano trovato un equilibrio ma mi hanno raccontato che il primo periodo non è stato così facile”.

Come sta il personale medico in prima linea?

“Sono molto provati perché questo virus è molto strano e si conosce poco, c’è poca letteratura. Quindi anche sulle strategie terapeutiche da adottare le certezze sono poche e si fondano su un mese e mezzo di storia. I miei colleghi hanno visto pazienti che sembravano stare bene e che invece poi si sono aggravati fino a morire. Sembrava che gli sforzi fossero vani e, anche ora, si sentono continuamente in pericolo. Siamo tutti esposti alla possibilità di contagio”.

Questa emergenza coronavirus è solo sanitaria o spirituale?
“Da credente e da sacerdote penso che questa sia un’esperienza anche spirituale. Ritengo che Dio ci parli attraverso la storia e i fatti. Ci interpella. Questa sofferenza accade vicino a noi e la vediamo in modo diretto. E’ inevitabile che uno si interroghi. Ho letto e sentito anche di medici ed infermieri atei che si sono riavvicinati alla fede. Anche il Papa ha sottolineato il fatto che ci siamo dimenticati dei poveri, degli ultimi, ci siamo sentiti onnipotenti ma nessuno si salva da solo. Forse può essere la rifondazione per una nuova umanità. Speriamo”.

Ha svolto anche le funzioni di sacerdote all’interno degli ospedali?

“Mi è capitato una volta durante un turno di notte durante il quale è morto un signore e mi hanno chiesto di benedire la salma. Si sta diffondendo la voce che sono un prete e quindi mi iniziano a chiedere queste cose. C’è con me nel reparto affianco, don Fabio della mia Diocesi che è medico specializzato. Lui è lì dall’inizio dell’emergenza. Anche lui oltre alla competenza da medico gli è stato chiesto di benedire qualche defunto”.

Come vive a livello personale queste ore?
“Io la vivo come una grande unificazione. Per me non c’è differenza nel dare la vita come prete nelle missioni che ho svolto finora in parrocchia o nell’emergenza. Sono lì da quindici anni, ho fatto la pastorale giovanile. In questo momento ero in preparazione per partire come missionario per l’Africa ma questa emergenza ha sospeso e ritardato tutto. Io sto donando la vita per il Vangelo, per amore dell’uomo  e di Gesù Cristo. Che sia in una parrocchia, nel cortile di un oratorio, in una missione in Africa piuttosto che in questa condizione contingente nei panni di infermiere in un ospedale, per me il minimo comune denominatore è sempre quello”.

Che parole di speranza vorrebbe far arrivare a chi sta a casa e non sa cosa succede nelle strutture mediche?
“Chiunque sta vivendo direttamente l’esperienza di questa malattia deve confidare in Dio, Dio sa, ci conosce. A volte sembra tacere. Ma quello che possiamo fare è confidare in lui. Non dimentichiamo che Gesù stesso sulla croce nel momento in cui stava salvando il mondo con la sua morte ha detto “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Sentirsi abbandonati da Dio è un’esperienza possibile ma forse proprio quando ci sentiamo più abbandonati è il momento in cui siamo più vicini a Lui”.

Advertising

Potrebbe Interessarti

Ultime Notizie