XVIII Conferenza delle Ambasciatrici e degli Ambasciatori d’Italia. Mattarella: “Aberrante intendimento ridefinire con la forza gli equilibri e i confini in Europa”

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AgenPress. Desidero anzitutto esprimere l’apprezzamento della Repubblica al nostro Servizio diplomatico, alle donne e agli uomini che, giorno per giorno, assicurano la presenza del nostro Paese in ogni parte del mondo.  Alcuni commentatori sostengono che quelli attuali non siano tempi facili e siano perfino inadatti per la diplomazia e, dunque, per quanti la esercitano per vocazione e professione. Sono in errore.

È esattamente in tempi difficili che la diplomazia si trova a dispiegare una delle sue caratteristiche più preziose: la ricerca di percorsi per uscirne e di spazi di dialogo. A chi ci si affida, infatti, per tracciare in concreto percorsi di negoziato e alternative possibili, anche nelle condizioni più complesse se non alla funzione diplomatica?

Per altro – e forse appunto per questo – nessuno immagina i diplomatici come una sorta di meri portaordini nel contesto internazionale, bensì ci si rivolge a loro come sperimentati professionisti, capaci di elaborare soluzioni e alternative sulla base delle scelte assunte dalle nostre libere istituzioni.

Importanti traguardi, conseguiti dalla comunità internazionale a partire dalla seconda metà del secolo scorso, sono il risultato di un impegno di grande efficacia della cooperazione tra gli Stati, agevolato dalle istituzioni multilaterali, a cominciare dall’ONU, e dalla prassi diplomatica.

Grazie a tutto questo – non va dimenticato – nel mondo di oggi si vive più a lungo, si impara di più, si crea più innovazione e ricchezza; abbiamo visto sottrarre interi continenti a condizioni di grande arretratezza. La situazione internazionale imprevedibile – e, per qualche aspetto, sorprendente – provoca disorientamento.

L’inquietudine del pessimismo che ne deriva non deve indurre a ritenere ineluttabile il processo che vede l’ordine geopolitico che avevamo contribuito a costruire mostrare crepe sempre più estese e profonde, con conflitti che credevamo consegnati per sempre alla storia riacutizzati, lambendo regioni a noi vicine.

Così come l’affacciarsi di nuovi focolai di instabilità in aree dove la fragilità politica e sociale è divenuta ormai strutturale, con l’emergere di paradigmi che vedono prevalere interessi particolari che, sovente, sfidano la legalità internazionale.

Nel contesto attuale è possibile essere protagonisti puntando su due ambiti, quello multilaterale e quello degli organismi sovranazionali, come l’Unione Europea, che possono consentire di raggiungere la massa critica necessaria per evitare di ricadere in ambizioni velleitarie.

Il mondo contemporaneo è attraversato da molteplici crisi che si sovrappongono l’un l’altra e si alimentano a vicenda. Per cogliere questa complessità sono state introdotte locuzioni nuove, come “policrisi”, mettendo a sistema fattori politici, frutto di scelte consapevoli dell’uomo, e di circostanze in apparenza esogene, come le emergenze climatiche o sanitarie, talvolta anch’esse – a ben vedere – effetti collaterali delle stesse attività umane. Gli esempi sono di grande evidenza.

Permane l’aggressione russa ai danni dell’Ucraina, con vittime e immani distruzioni, e con l’aberrante intendimento, malgrado gli sforzi negoziali in atto, di infrangere il principio del rifiuto di ridefinire con la forza gli equilibri e i confini in Europa. Azione ritenuta irresponsabile e inammissibile già oltre cinquanta anni addietro alla Conferenza di Helsinki sulla Cooperazione e la Sicurezza nel continente.

La tragedia di Gaza, con il suo carico di sofferenza civile e il persistente alto rischio di escalation, continua a esporre il Medio Oriente a nuove lacerazioni: il raggiungimento del cessate-il-fuoco, per quanto fragile, richiede il fermo sostegno di tutta la Comunità internazionale.

Nel Sahel e nel Corno d’Africa le instabilità politiche e i conflitti settari si sommano alle crisi ambientali, alla povertà estrema, alle migrazioni forzate.

Nelle zone più sensibili dell’Asia orientale la competizione tra potenze si traduce in un incremento delle frizioni e, talvolta, in un incremento di una pericolosa retorica bellicista.

Tensioni si vanno accentuando anche in America Latina e nei Caraibi, da ultimo con il riaffacciarsi di una sorta di riedizione della cosiddetta “dottrina” di James Monroe, la cui presidenza si è conclusa esattamente due secoli fa.

Ovunque, le conseguenze di fenomeni globali, dal cambiamento climatico alle disuguaglianze economiche, alle crisi energetiche, si sommano al riaffiorare di radicalismi ed estremismi che rendono, talvolta, difficili le pacifiche convivenze negli stessi Stati e fra gli Stati.

Una condizione che viene alimentata da flussi informativi manipolativi che, nell’ambito di conflitti ibridi condotti con vari strumenti ostili, congiungono fronte interno e fronte esterno.

Pericolose attività di disinformazione tendono ad accreditare una presunta vulnerabilità delle opinioni pubbliche dei Paesi democratici.

Cercano di affermarsi inediti ma opachi centri di potere – di fatto sottratti alla capacità normativa e giurisdizionale degli Stati sovrani e degli organismi sovranazionali. Centri di potere dotati di vaste capacità di influenza sui cittadini e, con esse, sulle scelte politiche, tanto sul piano interno ai singoli Stati quanto su quello internazionale.

Ne viene interpellata anche la diplomazia, chiamata, assieme alle altre articolazioni dello Stato, a concorrere, nel nostro Paese, alla salvaguardia del sistema di libertà e democrazia della Repubblica.

Su questo fronte un ruolo di particolare rilievo compete alle istituzioni del multilateralismo e all’Unione Europea, sede di condivisione di valori e scudo di difesa dei diritti dei propri cittadini. Si tratta di un tema centrale.

La tentazione della frammentazione si insinua nelle relazioni internazionali – e persino nel mondo occidentale – con la ripresa di un metodo di ostilità che misura i rapporti internazionali su uno schema a somma zero: se qualcuno ci guadagna significa che qualcun altro ci perde.

Esattamente il contrario dello schema adoperato con successo nei decenni di sviluppo della cooperazione in sede internazionale, in cui è stato possibile puntare a progredire e a ottenere, tutti insieme, risultati positivi.

Appare, a dir poco, singolare che, mentre si affacciano, in ambito internazionale, esperienze dirette a unire Stati e a coordinarne le aspirazioni e le attività, si assista a una disordinata e ingiustificata aggressione nei confronti della Unione Europea, alterando la verità e presentandola anziché come una delle esperienze storiche di successo per la democrazia e per i diritti, sviluppatasi anche con la condivisione e con l’apprezzamento dell’intero Occidente, come una organizzazione oppressiva, se non addirittura nemica della libertà.

L’Europa ha conosciuto nel Novecento l’abisso di un sistema internazionale che smarriva la via della ragione.

Le guerre del Novecento non sono soltanto un capitolo della storia, dei suoi libri: ci ammoniscono circa le conseguenze del predominio della forza sulla ragione, dell’arbitrio sulla norma, della paura sulla lungimiranza.

Assistiamo oggi alla pretesa di imporre punizioni contro giudici delle Corti internazionali per le loro funzioni di istruire denunce contro crimini di guerra, a difesa dei diritti umani, in definitiva a difesa dei popoli del mondo: sono pretese di un mondo volto pericolosamente indietro, al peggiore passato. Un mondo che si presenta rovesciato e contraddittorio con condanne alla carcerazione di componenti le Corti internazionali ad opera di un Paese promotore, e con suoi giudici protagonisti, del processo di Norimberga.

Ottanta anni fa, la fine della Seconda guerra mondiale e la nascita delle Nazioni Unite segnarono un passaggio fondamentale: la consapevolezza che la pace non è soltanto l’assenza di conflitti, ma un’architettura politica complessa, giuridica, morale che va realizzata giorno per giorno. E che richiede impegno – impegno quotidiano – da parte degli Stati e, al loro interno, da comunità che alimentino questa prospettiva.

La «ricerca della pace nella sicurezza» – come ammoniva un illustre inquilino di questo palazzo, Aldo Moro – ponendone a fondamento non solo i calcoli strategici e gli equilibri di potenza, ma anche l’aspirazione al superamento dei divari economici ed educativi, la cooperazione, l’interdipendenza tra i popoli. Una pace nella sicurezza, una pace nella giustizia.

Il dopoguerra suggeriva l’idea che non potesse essere l’alternanza dei cicli egemonici fra potenze – o aspiranti tali – a definire il futuro, per sfuggire alla “trappola di Tucidide” messa in luce nella teoria delle relazioni internazionali.

La nostra Repubblica, fin dalle sue origini, ha manifestato acuta consapevolezza del valore del dialogo internazionale come via privilegiata per affermare il suo ruolo nel mondo.

Questa scelta non discese soltanto da un’ispirazione riflessa nella nostra Costituzione, ma risponde, oggi come allora, a un ragionamento puntuale circa il modo migliore di tutelare i nostri interessi nazionali.

Prese forma nel corso del tempo, progressivamente, a partire dall’azione di un ministro degli Esteri come Alcide De Gasperi e, poi, di Carlo Sforza – che con lui collaborò, a sua volta da Ministro – quella Costituzione materiale che ha guidato, senza discontinuità, il nostro Paese nello scenario internazionale, basandosi su pace, dialogo, multilateralismo, europeismo, legame atlantico.

Quegli orientamenti continuano a rappresentare, ancora oggi, un patrimonio prezioso che ci può guidare nelle nuove forme con cui si presentano i conflitti.

Di fronte alla nuova complessità, avviene anche che la diplomazia appaia in ripiego o che si ritenga che si trovi a gestire la mera certificazione notarile di situazioni regolate con la forza. Non è così!

Alcuni dei risultati raggiunti nel dopoguerra dalla diplomazia, tanto quella multilaterale quanto quella bilaterale, sono stati straordinari.

Oggi, forse ancor più che nel recente passato, è indispensabile disporre di una diplomazia, competente e ben formata, capace di comprendere e gestire questa complessità, muovendosi con equilibrio.

Una diplomazia che sia in grado di sviluppare iniziative che colmino il preoccupante deficit di fiducia reciproca tra gli Stati che si va accumulando in seno alla Comunità internazionale; che sappia rivolgersi a tutti gli attori di una crisi, affermando i principi irrinunciabili della legalità internazionale.

Paradossalmente, l’evoluzione tecnologica degli armamenti e l’uso dell’intelligenza artificiale espongono a rischi accresciuti.

Nei domini più pericolosi, affidare ad algoritmi la decisione sulla vita e la morte segnerebbe un arretramento drammatico della sicurezza collettiva.

Penso che sia molto sottile il crinale tra l’illusione del dominio infallibile delle intelligenze artificiali e la prevalenza definitiva della stupidità naturale, che purtroppo, come noto nell’aforisma, attribuito ad Albert Einstein, può tendere all’infinito.

Il piano economico e commerciale è tutt’altro che esente da tensioni, con la diffusione di politiche e strumenti che puntano a rafforzare artificiosamente il proprio Paese a scapito degli altri. Sovraccapacità produttiva, dumping, dazi, dominio delle catene di approvvigionamento e coercizione economica, solo per citare alcune tra le distorsioni più significative, nuocciono a un mondo pacifico e interdipendente.

Se ci si propone di perseguire obiettivi di progresso la strada è soltanto quella del rafforzamento della collaborazione. L’alternativa porta ad avvolgersi nella spirale dell’instabilità.

La posizione geografica ci pone al crocevia di aree sensibili, dal Mediterraneo all’Europa centrale, dall’Africa al Vicino Oriente.

La nostra economia è legata ai flussi globali; la nostra società è aperta al mondo; la nostra evoluzione politica ha tratto beneficio dalla costruzione europea, dalle istituzioni multilaterali, dalla cooperazione.

È evidente che è in atto un’operazione, diretta contro il campo occidentale, che vorrebbe allontanare le democrazie dai propri valori, separando i destini delle diverse nazioni.

Non è possibile distrarsi e non sono consentiti errori.

La diplomazia è decisiva per la proiezione esterna dell’Italia, per la sua posizione nell’Europa integrata e nel mondo, e non soltanto per questi obiettivi.

Lo è perché il nostro Paese ha sempre saputo gestire in modo efficace il soft power di cui è portatore.

Vale ancora, in tempi in cui si afferma una visione dei rapporti internazionali, che da qualche parte si tende a ispirare alla brutalità?

L’epoca di transizione in cui ci troviamo presenta pericoli che dobbiamo saper tempestivamente riconoscere: a stagliarsi all’orizzonte c’è il rischio di un generale arretramento della civiltà.

La legalità internazionale è un bene comune efficace nel contrastare questo pericolo.

Lo sa bene chi, come voi, opera quotidianamente in contesti spesso difficili. E consentitemi, a questo riguardo, di esprimere solidarietà e vicinanza a quanti di voi lavorano in zone di conflitto, con disagi e rischi che meritano massima riconoscenza da parte dello Stato.

Nell’epoca delle “policrisi” è indispensabile una “poli-diplomazia”.

Immagino che a questa pressante esigenza di adattamento voglia corrispondere la recente riforma della Farnesina, che – come il Ministro Tajani ha ricordato – punta a rivolgersi all’intera gamma degli interessi nazionali da promuovere con una visione integrata.

L’opera silenziosa di tessitura della diplomazia, che sempre più, in questa epoca, connette Stati e comunità, può e credo debba – nelle sue espressioni più alte – contribuire a promuovere concordia nella convivenza tra i popoli, giustizia internazionale nei confronti di chi aggredisce e opprime, collaborazione per il bene comune. Sono, questi, fondamenti della nostra Repubblica.

Con questi auspici, auguro a tutti un proficuo proseguimento dei lavori, insieme agli auguri a voi e alle vostre famiglie per le festività che si avvicinano.

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