AgenPress. Voglio dirlo nel giorno meno felice della sua lunga storia politica: stimo Massimo D’Alema, mi considero suo amico.
E’ la testa più ordinata della sinistra italiana, che non è tutta comunista, ma in gran parte viene dalla mistica del PCI. A differenza degli altri, D’Alema non ha scambiato la cultura comunista con tutte le mode propinate dal circo mediatico che mena la danza nei dintorni del Pd.
A un certo punto il Pd ha preso la sua strada, che non è stata più quella di D’Alema. E lui ha preso la sua: la fondazione ‘Italiani europei’, gli impegni a Bruxelles, la fattoria in Umbria, il vino, i cani. E gli affari, probabilmente. Legittimi, ci metto la mano sul fuoco, ben prima che gli approfondimenti giudiziari sgonfino – come prevedo – le accuse montanti.
Forse però aveva ragione una volta di più il mio amico e maestro Gerardo Bianco, quando ammoniva che un politico è tale prima e dopo il suo mandato, indossa una toga, e ha il dovere di non confonderla con altre missioni, fossero pure le più nobili e disinteressate.
Bianco esortava a non cercare fonti di guadagno diverse dall’indennità e dal vitalizio, che egli non a caso difendeva.
La classe politica ha scelto invece la strada di ridurre i guadagni dei politici, tranne poi profondersi in mille lavori paralleli, dalle conferenze di Renzi, agli affari di D’Alema, fino alle cento sfumature di grigio della terza repubblica.
Io la penso come Gerardo Bianco. Abbiamo i nostri privilegi, pensati dal Costituente per proteggere l’autonomia dei parlamentari. Contentiamoci di quelli. Non cerchiamo nuove vite, anche quando il mandato sarà terminato.
Forse questa è la sola colpa di Massimo D’Alema, anche se nessun tribunale gliela contesterà mai.