AgenPress. Casanova non è l’ennesimo libertino di repertorio. È il libertino per eccellenza, quello che per due secoli è stato consumato a forza di aneddoti, scandali, caricature. Bruni parte da qui e fa l’operazione inversa: gli toglie la risata, gli toglie la posa, gli toglie gli alibi e racconta quello che resta. Resta il tempo. Resta la ferita. Il libro lavora su questo scarto: Casanova non come mascotte del piacere, ma come uomo che litiga col proprio secolo e lo attraversa di sbieco.
Già dall’introduzione incaricata di “presentare” il personaggio, in realtà lo sottrae all’immagine canonica. Bruni lo piazza fuori dal recinto dei figli composti dell’Illuminismo e gli confeziona una cornice anti-illuminista, tradizionalista ante litteram, vandeano dello spirito. Etichette pesanti che vengono usate come grimaldello per scardinare il cliché del libertino spensierato. La lettura è “antilibertina” (la definizione è mia: non troverete mai la parola “antilibertino” nel libro) nel senso più interessante: nessun moralismo, ma allergica all’idea che il desiderio sia una ginnastica privata, senza storia e senza responsabilità.
La scommessa si capisce davvero quando il libro entra nell'”uomo vecchio”. Lì Casanova non seduce, non trionfa, non fa scuola di galanteria: lotta contro la natura, cioè contro il tempo. L’età non è un dato biografico ma un avversario. È già un modo di capovolgere l’immagine da poster: il seduttore diventa qualcuno per cui il corpo non è più il luogo della prestazione, ma quello dell’attrito. Bruni non ha bisogno di chiamare in causa grandi categorie filosofiche: basta il vecchio che guarda la propria vita e capisce che il secolo non ha più bisogno di lui.
Quando entra in scena l’Inquisizione, la tesi centrale prende forma: Casanova vive esattamente sulla soglia. Un piede nel mondo sacrale, uno nel nuovo ordine razionale. Non è un santo perseguitato, non è un anticlericale da manuale. Con fede, peccato e limite il suo rapporto resta intermittente, sbilenco, mai pacificato. Queste pagine non celebrano una “redenzione” dal peccato, ma mostrano come ogni gesto resti impigliato in una rete di colpa, rito e memoria. Anche quando sembra soltanto trasgressione. Il libertinaggio da consumo serve appunto a cancellare questa rete, a non sentire più nulla. Il Casanova di Bruni, invece, è uno che continua a sentire troppo. E non smette di fare i conti con ciò che ha fatto.
L’accostamento con Rousseau e con il secolo dei Lumi, in questo quadro, non è un semplice gioco di contesto ma uno snodo concettuale. Bruni porta la sua tesi fino in fondo: Casanova non è il volto gaio dell’Illuminismo ma il suo controcanto stonato. Mentre la filosofia ufficiale si affida alla promessa della Ragione, lui resta affezionato a un mondo che pretendeva di sapere in anticipo dove passava il confine tra lecito e illecito, tra desiderio e peccato, e che proprio per questo rendeva ogni trasgressione tragica anziché banale. Che questa nostalgia sia più forte nella penna di Bruni che nei documenti casanoviani è questione aperta. Tuttavia, come chiave di lettura funziona, perché costringe a guardare il Settecento non solo dal lato luminoso delle proclamazioni, ma anche da quello più scuro dei corpi e delle promesse.
Tutto questo sarebbe teoria, se non trovasse un banco di prova concreto nella parte dedicata agli anni di Dux, il castello boemo dove Casanova trascorre la vecchiaia da bibliotecario. Lì l’antilibertinismo che io leggo nel libro si incarna. Il vecchio Casanova riscrive la propria vita per non consegnarla interamente agli altri. La formula del «mentitore che volle sconfiggere il tempo» è un programma di sopravvivenza. La memoria non è un verbale, è un’officina. La menzogna non falsifica il passato: lo rende abitabile quel tanto che basta per non esserne espulsi.
È quando il libro passa alla sezione “Della seduzione” che la tesi trova il suo centro di gravità. Bruni non censura nulla, ma disinnesca il meccanismo del conteggio. La seduzione è trattata come arte del tempo e del rischio, non come abilità da manuale. C’è un piacere dichiarato, a tratti esibito, ma non è mai ritenuto innocente. Ogni incontro apre un debito, lascia una traccia che non si chiude quando i corpi si separano. Casanova diventa il luogo in cui il desiderio si intreccia con la colpa, con la gratitudine, con la perdita.
A questo punto Bruni osa: parla di Casanova come “filosofo antirazionale”. Intendiamoci: non c’è nessun sistema, nessuna dottrina chiusa. Quello che c’è sono nodi che ritornano – tempo, seduzione, oblio, fede irregolare – e il gesto di non trattarli come psicologia da salotto. Chiamarlo “antirazionale” è un modo per opporlo al culto della Ragione astratta. L’intelligenza pratica del personaggio resta intatta. Nei fatti, il veneziano che passa da un tavolo da gioco a una fuga dai Piombi, da una corte principesca al villaggio, è tutt’altro che estraneo al calcolo, alla strategia, alla lucidità. Proprio per questo la categoria di “filosofo” va presa come metafora di lavoro più che come carta d’identità.
Il trittico piacere-amore-fedeltà è forse il punto in cui la lettura di Bruni dialoga di più con una sensibilità contemporanea che non vuole scegliere tra morale d’ordine ed edonismo leggero. Il piacere non viene mai disincarnato dalla responsabilità; l’amore non viene ridotto né alla promessa eterna né alla serie di esperienze senza resto. «All’amor non si comanda» è vero in un senso doppio: ci si innamora e ci si disamora senza volere. Imputarsene o imputare all’altro la fine è meschineria. Ogni storia è una prova: di ciò che un corpo può reggere, di ciò che una parola può promettere, di ciò che resta nell’anima quando si fugge o ci si lascia a giochi finiti. A quel punto la fedeltà smette di essere soltanto l’opposto del tradimento e diventa il banco di prova di ciò che dici di essere: dopo il «conosci te stesso» sembra quasi di intravedere uno «smentisci te stesso», verifica se l’immagine che hai di te regge quando entri davvero nel rischio della relazione. In questo senso il tradimento, nella trama del libro, affiora come possibilità estrema non solo di colpa ma di verità: è lì, dove si spezza la fedeltà, che si vede se eri fedele a un’altra persona o soltanto a un’idea di te. Bruni insiste sul fatto che una fedeltà puramente formale, legata all’istituzione, non basta. Ma nemmeno lo convince l’idea di una libertà che possa ricominciare ogni volta da zero, come se il passato fosse revocabile. Il libro difende una fedeltà alle conseguenze: non al contratto, non all’ideale, ma al peso di ciò che è accaduto. È una linea che emerge soprattutto nelle pagine più notturne, quando le donne tornano come ricordo, come rimorso o come gratitudine, più che come nome sul taccuino.
Gli inserti su d’Annunzio, su Piero Chiara, su Roberto Gervaso, insieme all’Appendice su Ravel, fanno da controcanto e da verifica. Non sono semplici note bibliografiche: sono il luogo in cui si vede come il mito di Casanova è stato usato per raccontare ora la seduzione come gioco elegante, ora come vizio, ora come spettacolo popolare. Bruni non finge di stare fuori da questa catena di riscritture. Il suo Casanova è un’altra tappa della storia del personaggio, non la rivelazione definitiva del “vero Casanova”. È un atto di onestà implicita: ogni generazione si prende un Casanova diverso, questo libro dice quale si prende la nostra.
E alla fine, quello che resta, è proprio la traiettoria della lettura suggerita. Un seduttore nobile, dice il titolo. Nobile non perché innocente – il libro non lo è mai – ma perché costretto a misurarsi con il tempo, con la vecchiaia, con l’esilio, con la memoria dei propri errori. L’antilibertinismo di Bruni non è una crociata contro il piacere; è il tentativo di rimetterlo dentro una trama di colpa, rito, memoria che il Settecento sta consumando e che il nostro presente preferisce non vedere. Se su qualche etichetta – Casanova filosofo, Casanova antirazionalista puro, Casanova tradizionalista – il lettore può permettersi una qualche cautela, ciò che resta davvero in piedi è questo gesto: prendere sul serio un uomo che attraversa la frattura tra un mondo sacro e uno razionale e mettere il desiderio alla prova del debito e del tempo. Da questo punto di vista, il Casanova di Bruni non è né modello né contro-modello. È un reagente: dove lo versi, il racconto pulito del piacere si macchia subito di storia. E non va più via.
Miro Renzaglia