AgenPress. Prima o poi doveva succedere, ed è successo: Cesare Pergolizzi, classe 1940, clochard nato a Catania e residente a Roma, è morto. Era uno dei tanti che dormono per strada, solo che lui aveva scelto una strada, per così dire, più chic: piazza san Lorenzo in Lucina, salotto buono del tridente romano, tra il portico della Basilica e le vetrine delle dirimpettaie boutique del lusso.
Lo conoscevano tutti, e anche io, che abito nel quartiere ininterrottamente dal 1994: come tutti i provinciali approdati a Roma, mi sono scelto un piccolissimo lembo di città, e l’ho fatto mio, per ricreare gli orizzonti rassicuranti della dimensione provinciale. Cesare ci è stato sempre, ma io l’ho scoperto attraverso il mio indimenticabile portavoce Alfredo Tarullo, che lo aveva adottato.
Morto Alfredo, Cesare rimase a me: eredità leggera, due chiacchiere prima della preghiera quotidiana in basilica, un caffè offerto, raramente un obolo, una volta sola un telefonino, richiesto per parlare chissà con chi. Tutto qui: Cesare non chiedeva molto, quasi niente. Negli ultimi tempi rivendicava una domanda -perduta nei tempi – per una casa popolare. Ma poi precisava che non aveva granché da rivendicare: le case popolari erano tutte in periferia, e lui sosteneva di avere una singolare patologia che lo costringeva a soggiornare nel centro storico, fuori del quale non avrebbe avuto respiro. ’Non so spiegare la mia malattia’ raccontava davanti al caffè Ciampini “ma io fuori del centro storico sarei un uomo morto”.
E passava le sue giornate davanti alla Basilica di San Lorenzo in Lucina, ormai integrato con la variabile umanità del centro storico, fatta di passanti non sempre pietosi, commercianti non sempre generosi, turisti non sempre attenti al prossimo.
Ieri è morto, in coincidenza coi lavori che interdicono la sua piazza agli abituali frequentatori. Cesare è morto nella vicina piazza san Silvestro, dove si era spostato. Forse sarebbe morto anche in piazza san Lorenzo in Lucina, perché aveva ottantuno anno, e non è un’età fatta per dormire in strada. Per carità, ottantuno anni li portava da dio. Magari dormire all’addiaccio farà bene, o forse è solo la pecetta consolatoria che noi borghesi ci diamo per prendere sonno dopo una notizia del genere: a mia discolpa dico che Cesare aveva il mio numero di cellulare, fornitogli per ogni emergenza, ma è pochino, per un cristiano che dovrebbe riconoscere e aiutare il suo prossimo.
E pensare che ero entrato in politica seguendo il monito di un antico parroco: ’a che serve accudire un povero, quando puoi scegliere di accudirli tutti facendo politica?’. Già, la politica: dei clochard non si occupa da tempo. Per la sinistra non esistono, ma si sa, la sinistra ha fastidio della povertà. A destra peggio ancora: ogni tanto qualcuno strumentalizza i clochard per contrapporli ai migranti, e trarre la conclusione che abbiamo troppi italiani poveri per poterci commuovere degli stranieri.
Un giorno una turista mi mortificó dicendo che si veniva da tutto il mondo per vedere la capitale della cristianità, e si veniva accolti già in stazione da decine di poveracci all’addiaccio, una scena che umiliava Cristo. Intanto mi umiliai io, parlai con l’ufficio preposto al Comune, e mi fu recitata la solita tiritera: alcuni vogliono stare in strada, gli spazi comuni non sono troppo invitanti, ma neppure possono esserlo perché sennó ci vanno tutti per risparmiare il fitto di casa.
Vabbè, intanto Cesare è morto, e sarebbe bello se i vari Raggi, Calenda, Gualtieri e Michetti lo onorassero dicendoci se hanno una proposta, un’idea, una preoccupazione per l’emergenza dei senza-dimora a Roma.