90 anni fa Cesare Pavese confinato a Brancaleone in Calabria. Una rilettura necessaria

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AgenPress. 4 agosto del 1935. Cesare Pavese arrivava a Brancaleone. Calabria. Doveva scontare tre anni di confine per una accusa poco fondata. Tanto che dopo diverse lettere che Cesare indirizza a Mussolini viene completamente graziato e resta a Brancaleone soltanto alcuni mesi.
Prosciolto. Cesare scrive a Mussolini. Lui e la sua famiglia non sono mai stati antifascisti. La sorella Maria conferma in un’altra missiva al Duce tutto ciò (di questo ho scritto abbondantemente nei miei libri).
Bastano pochi mesi in terra calabra per far comprendere a Cesare l’importanza del mito, dei riti, della grecità profonda. Nasceranno da questa sua permanenza in Calabria romanzi e poesie fondanti come “Il carcere”, “Lo stendazzu”, una poesia significativa del suo vocabolario lirico, “Il mestiere di vivere” e di scrivere che a Brancaleone annota i primi passi e quei “Dialoghi con Leucò” che resta l’unicum del Novecento oltre a diversi racconti pubblicati poi sulla rivista di Giuseppe Bottai “Primato” e su altre riviste fasciste.
La grecità e la Magna Grecia restano nell’anima di Pavese in una comparazione stretta con le sue Langhe. Pavese vive la Calabria con i suoi fichi d’India, con quella quarta parete che è il mare, con la bellezza della feste e della gente sempre ospitale e con le donne con l’anfora in testa.
Scriverà “Qui ho trovato una grande accoglienza. Brave persone, abituate a peggio, cercano in tutti i modi di tenermi buono e caro. (…) Che qui siano sporchi è una leggenda. Sono cotti dal sole. Le donne si pettinano in strada, ma viceversa tutti fanno il bagno.”
La vita di Pavese è nello scrivere la vita.
Il 27 agosto del 1950 Pavese viene trovato morto in un albergo di Torino. Il suicidio come discesa nel Regno dell’infinito con accanto Tiresia. Senza mito non ci sarà mai poesia. La poesia è la ripetizione di senso. Cesare Pavese. Uno scrittore che ha attraversato le malinconie dell’amore in un vissuto di esistenze e di parole. Lo scrittore che non ha mai creduto nel realismo, e non credendoci, non lo ha mai accettato sia nel linguaggio che nelle forme. La metafora di Leucò è una costante nei suoi scritti.
Uno scrittore osteggiato e, anche, temuto perché la sua poesia e il suo romanzo hanno fatto scuola, ovvero hanno creato degli indirizzi letterari, metaforici e linguistici sul filo di una profonda metafisica in linea con la grecità dell’ulissismo e dei simboli. Non esiste realismo con Pavese. Il labirinto azzera ogni forma di rappresentazione e la vita è uno scavo perso nei meandri infiniti che cercano di comprendere il finito.
Il  racconto su Pavese, che porto avanti da decenni, è un percorso in cui gli archetipi della sua infanzia ritornano costantemente a fare luce all’interno della sua inquietudine – foresta. I miei sette otto libri su Pavese con gli ultimi   “Amare Pavese” e il recentissimo “La profezia del bosco”  (Zaffiri, Pellegrini) sono un attraversare il mio “gorgo” per raccogliere la consolazione dei distacchi che, diversamente delle lontananze, feriscono il cammino.  Si racconta degli amori e, in particolare, di Constance Dowling, il suo ultimo amore, che darà i versi di “verrà la morte…”.  Ma c’è una presenza importante nella sua vita che è quella di Bianca Garufi.
Una presenza forte che va oltre certamente sia Constance che la Tina Pizzardo dalla voce roca. Con Bianca Garufi ha scritto il libro chiave che è l’incompiuto “Fuoco Grande” e a lei ha dedicato non solo le poesie de “La terra e la morte”, ma i “Dialoghi con Leucò”, l’unico libro del Novecento italiano in cui il mito, il mistero e la profezia si incontrano lungo la traccia di una antropologia metafisica. Pavese scese con Leucó nel Regno dei morti per catturare il mito della fine. Trovò lo sguardo di Bianca e cercò di farsi raccontare la fantasia dell’infanzia.
Una originalità straziante che Pavese mette in evidenza attraverso un sostegno mistico e antropologico – umanistico che tenta di percorrere i labirinti dell’anima. Comprese che la nostalgia è un viaggio interminabile e indefinibile. “Fuoco grande” è il falò del tempo. Con “La luna e i falò” riemerge il viso del gorgo e diventa sguardo dentro l’anima. Il volto specchiato è fisicità. Il silenzio è metafisica ancestrale. È scendere nel gorgo muto.
Il Novecento letterario, nella sua complessità, si apre con Pirandello – D’Annunzio e si chiude con Pavese.
Si vive un viaggio tra l’estetica e il mito in una saggezza tra Mediterranei e Oceani. La donna è il mito ed incarna la vita e la morte, il mistero e la finzione, la bellezza e l’indefinibile. Ed è Bianca che intreccia il canto dell’esistere e del morire perché in essa c’è la discesa negli Inferi, ovvero il mito che si abita nel rito.
In questo navigare tra la grecità e i miti ancestrali dei popoli primitivi, il linguaggio pavesiano  incontra, soprattutto, la differenza tra il senso di disperazione e di tragico, il cui centro è dato dalla conoscenza profonda di Nietzsche, sul quale Pavese ha dedicato molto suo lavoro, e l’umanesimo della nostalgia che diventa viaggio verso il centro – labirinto. È Omero che diventa la definizione del viaggio pavesiano. Leucò – Bianca è la metafora di Penelope – Circe – Calipso. È una terra e un mare. Da qui inizia l’ultima fase della creatività di Pavese. Siamo nel 1945. Si conclude con il suo suicidio, 1950,  e con il dire che il suo dovere è stato fatto. Ha dato poesia agli uomini. Non scrisse per testimoniarsi. Ma per sfidare la morte in ogni pagina. Come con i “Dialoghi” nei quali il dialogare è un confrontare le griglie simboliche che affollano la morte nel vivere. Il mio Pavese non conosce la storia. Si vive scendendo nelle stanze della nostalgia abitate dai porti al centro dei mari.
Cesare Pavese era nato a Santo Stefano Belbo il 9 settembre del 1908. Muore, suicida, il 27 agosto del 1950 nell’Albergo “Roma” di Torino. Sul comodino i “Dialoghi con Leucò”.
In Calabria scopre il senso del selvaggio e quel mito fatto di tragico e di tempo. Incontra Concia e le altre donne che hanno nomi omerici in un paesaggio di tramonto rosso sulle rocce e quelle onde che hanno i colori del vento. La Casa del Confine a Brancaleone è una testimonianza vibrante e Tonino Tringali  il proprietario e innamorato di Cesare ha reso punto nevralgico per approfondire il Pavese calabro.
Pierfranco Bruni
Sono passati 90 anni dal suo arrivo in Calabria e si ricorda e non si dimentica la necessità e il dovere di continuare a discutere su Pavese. Perché? Ebbe a scrivere: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono «Este u’ confinatu», lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bell’è contento.”
Il resto è visitare i luoghi calabresi di Brancaleone abitati dal mio nostro Cesare.
Pierfranco Bruni
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