Una riflessione sul rifiuto del sindaco entrante di Merano di indossare il simbolo tricolore di Enrico Passaro, già responsabile dell’Ufficio del Cerimoniale di Stato e per le Onorificenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri e membro del Comitato consultivo per il Cerimoniale Istituzionale della Fondazione Insigniti OMRI
AgenPress. Alla fine, il sindaco neoeletta di Merano, Katharina Zeller, si è scusata per il suo gesto. Le immagini hanno fatto il giro di tutte le redazioni e dei social. Nel momento dello scambio di consegne col sindaco uscente, ha indossato malvolentieri per un solo attimo la fascia tricolore, curandosi di sfilarsela e accantonarla immediatamente, preferendo farsi immortalare nelle foto ufficiali con la chiave della città.
Lei, la sindaca, ha dichiarato di non aver voluto assolutamente esprimere un sentimento anti-italiano, ma di essersi ribellata al gesto provocatorio e aggressivo del collega uscente che, a suo avviso, intendeva metterla in difficoltà politicamente e anche in quanto donna. Ora, la giustificazione riconducibile alla questione di genere appare forse anche un po’ azzardata: “Se al mio posto ci fosse stato un nuovo sindaco maschio, il mio predecessore non lo avrebbe affrontato in questo modo.”
Al di là delle presunte motivazioni addotte, restano le immagini di quel gesto che hanno urtato la sensibilità dell’opinione pubblica. La fascia tricolore è un simbolo rappresentativo del primo cittadino, introdotto per legge con il decreto legislativo n. 267/2000 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali – articolo 50, comma 12), ma anticipato già da una circolare del Ministero dell’Interno del 4 novembre 1998, che si esprimeva in maniera chiara e significativa: «L’uso della fascia tricolore da parte del soggetto che rappresenta la comunità locale si caratterizza per il suo valore altamente simbolico (…) L’alto ruolo istituzionale svolto dal sindaco impone, pertanto, un uso corretto e conveniente della fascia tricolore nell’avvertita consapevolezza della dignità e del decoro della carica, e tale da non scalfire la realtà dello Stato come elemento di unità giuridica, nel cui ambito ogni cittadino è tenuto a partecipare al mantenimento dei valori che lo caratterizzano e lo fondano.»
Parole precise, misurate e inconfutabili: decoro della carica, unità giuridica dello Stato, mantenimento dei valori.
Katharina Zeller era già stata amministratrice comunale nella veste di vicesindaca proprio della giunta uscente e aveva scelto con piena consapevolezza di candidarsi a sindaco. Non v’è dubbio che conoscesse il valore simbolico della fascia e il significato del suo gesto di sfida verso le istituzioni nazionali, strizzando un occhio alle agguerrite minoranze altoatesine, animate da sempre da sentimenti anti-italiani.
Sono note le difficoltà di relazione, i tentativi di compromesso, talvolta le incomprensioni e gli scontri nei territori dove sono presenti e attive alcune minoranze linguistiche. Chi scrive ha vissuto un’esperienza simile nel corso della carriera lavorativa come responsabile del Cerimoniale della Repubblica, questa volta riferita all’inno nazionale, altro simbolo del Paese.
Arrivò una nota del Presidente della Provincia autonoma di Bolzano, nella quale si informava di una mozione approvata dal Consiglio Provinciale con la quale si esprimeva parere sfavorevole all’insegnamento dell’Inno di Mameli nelle scuole. In particolare, il Presidente lamentò «l’imposizione a una minoranza linguistica e culturale come quella altoatesina di imparare a memoria e cantare l’Inno, poiché rievoca il periodo storico legato al fascismo, soprattutto nelle strofe dove si dice “Stringiamci a coorte siam pronti alla morte”, “I bimbi d’Italia si chiaman Balilla” e “Già l’aquila d’Austria le penne ha perdute”.»
Sembrava superfluo, ma evidentemente necessario spiegare al governo provinciale altoatesino che il riferimento al periodo fascista appariva quantomeno bizzarro e sicuramente inappropriato, in quanto, com’è noto, Goffredo Mameli scrisse quel testo il 10 settembre 1847.
Provammo anche ad argomentare il senso di quelle frasi che tanto allarme avevano creato in seno all’assemblea provinciale, ad esempio sull’espressione “Stringiamci a coorte”, come invito all’unità del popolo italiano che negli anni del Risorgimento si trovava a vivere all’interno di uno Stivale frammentato in diversi Stati. Parliamo, è evidente, del clima che si respirava nel 1847. Ma forse era la presunta mancanza di riguardo contenuta nel testo completo dell’inno verso i vicini amati austriaci a turbare il sonno degli altoatesini. I quali poi conclusero le loro argomentazioni citando una propria mozione nella quale si affermava: «Imporre a una minoranza linguistica e culturale come quella altoatesina l’inno nazionale di uno Stato considerato straniero è espressione di un nazionalismo esasperato.»
Come si fa quindi a spiegare il valore simbolico dell’inno nazionale e del tricolore a una minoranza linguistica e culturale che considera la Repubblica Italiana “espressione di un nazionalismo esasperato”? E soprattutto: si potrebbe uscire finalmente dai confini di una perenne contrapposizione politica e ideologica per affrontare e gestire gli avvicendamenti istituzionali con lo stile e il rispetto che meritano?
La neosindaca ha considerato il gesto del primo cittadino uscente come una provocazione e una volontà di sopraffazione. Eppure il passaggio della fascia potrebbe essere semplicemente un momento ufficiale e sereno dello scorrere della vita amministrativa, che comporta giustamente avvicendamenti e alternanza, nel rispetto della volontà popolare.
È un tema ultimamente sostenuto con forza dalla Fondazione Insigniti OMRI e in particolare dal suo presidente Francesco Tagliente. Perché non istituire formalmente la prassi protocollare della cerimonia del passaggio della fascia tra il sindaco uscente e quello entrante, sul modello del celebre passaggio della campanella a Palazzo Chigi? Nient’altro che il gesto che ha tentato di compiere il sindaco sconfitto di Merano nei confronti della neoeletta, che si è rifiutata di aderire alla proposta.
È un invito e un richiamo al rispetto delle istituzioni che, nel momento in cui occupiamo cariche pubbliche, siamo chiamati a servire e a non strumentalizzare, nel nobile obiettivo di esprimere sentimenti di condivisione, unità e appartenenza senza pregiudizi.
Evidentemente dobbiamo ancora imparare a sentirci uniti in una comune identità, europea più che italiana. Ancora vivono e imperversano divisioni e contrapposizioni di epoca ottocentesca, mai risolte né dagli eventi del ventesimo secolo né dalle speranze del ventunesimo.