AgenPress. Sono passati dieci anni dalla morte, il 17 agosto del 2010, di Francesco Cossiga. Da ‘presidente notaio’ a ‘picconatore’, Cossiga è stato un Capo dello Stato unico nel suo genere nella storia della Repubblica. Eletto al primo scrutinio con la cifra record di 752 voti su 977, grazie alla regia dell’allora segretario della Dc, Ciriaco De Mita, che riuscì a far convergere sul suo nome sia le forze della maggioranza pentapartito che il Pci. Con dieci settimane d’anticipo sulla scadenza naturale del mandato, il 28 aprile del 1992, Cossiga si dimise dalla Presidenza della Repubblica.
Gianfranco Rotondi ricorda Francesco Cossiga a dieci anni dalla scomparsa.
“Fui nominato da Cossiga direttore del Popolo in modo irrituale, perché mi vide in tv di notte e chiese a Buttiglione di nominarmi. La mia carriera fu battezzata da lui, mi chiamava nelle ore più strane. Da parte mia c’è sempre stata una dichiarata e affettuosa subordinazione nei suoi confronti. L’ultima parola nelle mie scelte politiche era sempre la sua, e lui esigeva dagli amici dedizione e rispetto e anche che subissero l’ingiuria ma perché ci voleva bene”.
“Fece nero il povero Gava chiamandolo figlio di un boss. Dissi a Gava, non sei offeso? No, mi rispose, perché Cossiga quando ti aggredisce ti vuole bene – ricorda Rotondi -. Non aveva malanimo, aggredire era una forma di dialogo. Certo, gli aggrediti non sempre ricambiavano con lo stesso afflato”.
“Cossiga aveva un carattere singolare, irripetibile – spiega il presidente della Fondazione Dc – nessuno può essere accostato a lui e nessuno poteva essere come lui o reagire al suo carisma. Non solo da Capo di Stato, perché già da ministro dell’Interno si vedeva la sua forza. Una volta in trasferta eravamo a un pranzo. ‘Vado a dormire’, disse improvvisamente a metà del pranzo e poiché nel ristorante non c’erano stanze, il proprietario fu costretto a mettergli a disposizione la sua camera da letto”.
“Aveva un carisma che autorizzava qualsiasi confidenza. Alternava delicatezze straordinarie di una grande familiarità a asprezze note. Ma la sua prepotenza era un segno d’affetto, non di arroganza”, conclude Gianfranco Rotondi.