Quando gioca Sinner l’Italia ritrova la passione per il Tennis

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AgenPress. Da quando gioca Sinner, perfino chi detestava il tennis si scopre appassionato.

Il rito collettivo che azzera le distanze

C’è chi spegne il telefono, chi rinuncia all’aperitivo, chi posticipa una riunione. Quando gioca Sinner, si crea una sospensione nel tempo. I minuti si dilatano, le voci si abbassano, i volti si concentrano. In salotto o in un bar rumoroso, davanti a un maxischermo o stretti attorno a un cellulare, poco cambia: tutti vogliono esserci, perché sentono che non è solo tennis.

Un ragazzo dai capelli rossi, nato tra le nevi dell’Alto Adige, è riuscito dove tanti avevano solo accennato: ha trasformato un colpo di dritto in un gesto collettivo. Non c’è distinzione tra chi conosce la regola del tie-break e chi, fino a ieri, pensava che il Roland Garros fosse un pittore. La febbre sale, la tensione corre sotto pelle. Non è solo una partita, è un evento che si fa carne, sudore, fiato sospeso. Quando gioca Sinner l’Italia smette di essere un mosaico di dialetti e passioni per sport diversi e si scopre unita da un solo battito.

Al Foro Italico succede qualcosa che somiglia a un miracolo

È un rombo, non un applauso. È un’onda che non si ferma, che rimbalza sulle gradinate, accende i volti, scardina la compostezza da circolo elegante. Quando gioca Sinner Roma cambia pelle, le racchette si trasformano in tamburi e ogni punto vinto è un urlo che graffia il cielo. C’è chi si alza in piedi, chi si morde le unghie, chi guarda solo tra le dita per scaramanzia. E ogni tanto, qualcuno si commuove.

Nel cuore del Foro Italico, non si tifa soltanto. Si partecipa. Si soffre, si esulta, si vive con lui. Come se bastasse spingere più forte con la voce per far atterrare una palla sulla linea. La gente gli vuole bene sul serio, non per la classifica o per i trofei. Per come tiene la racchetta, per come si asciuga il sudore, per il modo in cui guarda l’avversario negli occhi senza mai sbatterli.

In campo, Sinner è una promessa mantenuta. Fuori, è il figlio che ogni genitore vorrebbe, il fratello maggiore che ogni bambino sogna, l’italiano che sa cosa vuol dire arrivare dove nessuno ti aveva pronosticato.

Da quando gioca Sinner, perfino chi detestava il tennis si scopre appassionato

Non è più questione di dritto, rovescio o servizio. C’è qualcosa che scavalca il campo, che si insinua tra le pieghe di una quotidianità altrimenti distratta. Sinner è diventato un segnale, uno di quelli che dicono “guarda che possiamo farcela anche noi”. Senza bisogno di urlare, senza tatuaggi vistosi, senza proclami da social. Solo con la forza tranquilla di chi si fa largo spaccando le certezze con l’umiltà di chi non ha bisogno di spiegarsi.

Da quando gioca Sinner, perfino chi detestava il tennis si scopre appassionato. Perché è impossibile restare indifferenti davanti a quella calma apparente, a quell’intelligenza feroce che trasforma ogni scambio in una lezione. I bambini iniziano a chiedere la racchetta a Natale, gli adulti si emozionano come non accadeva dai tempi di Panatta. Ma stavolta è diverso: Sinner è cresciuto in un’Italia che non era abituata a vincere nel tennis, e per questo ogni suo passo diventa un’occasione per credere di nuovo.

L’effetto domino di Sinner sullo sport del Tennis

In pochi anni, ha fatto più lui per il tennis italiano che vent’anni di spot e campagne federali. Le iscrizioni nei circoli si impennano, le racchette vanno a ruba, i maestri sono pieni fino a giugno. Ma il fenomeno va oltre: Sinner ha ridato dignità alla parola “disciplina”, a un talento che si coltiva con pazienza, non con l’arroganza del genio che tutto può.

Quando gioca Sinner l’Italia si guarda allo specchio e, per una volta, si piace. Non perché tutto fili liscio, ma perché c’è un ragazzo che sbaglia, cade, si rialza, e non smette mai di provare. Non c’è spocchia, non c’è l’ego esagerato dell’atleta superstar. C’è un’educazione quasi disarmante, un rispetto che non è debolezza ma scelta consapevole. Una nuova grammatica del successo.

Nel suo modo di stare al mondo, c’è l’Italia che vorremmo essere. Quella che fatica, che ascolta, che cresce con dignità. E ogni volta che entra in campo, il sogno torna a farsi possibile.

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