Intervista esclusiva SprayNews.it a Bruno Contrada

AgenPress. “Mori, Subranni e De Donno resteranno uomini delle istituzioni. Qualunque cosa accada” – dichiara – Bruno Contrada, 90 anni, già dirigente della Polizia di Stato, dirigente del Sisde e capo della Squadra Mobile di Palermo


Contrada, nel processo di appello per la cosiddetta trattativa Stato-Mafia, la Procura di Palermo ha chiesto la conferma delle condanne a 12 anni di detenzione per l’ex comandantie del Ros Mario Mori e a 8 anni per l’ex capitano del Ros Giuseppe De Donno. Nessuno meglio di lei, che ha patito un calvario analogo, può immedesimarsi negli stati d’animo di chi rischia un’altra condanna infamante dopo una vita trascorsa al servizio delle istituzioni. Tanto più che ad accusarli è Giovanni Brusca, 150 omicidi e un bambino sciolto nell’acido sulle spalle, tornato libero proprio in questi giorni per i benefici della legge sui pentiti…

Nessuno meglio di me può comprendere il loro stato d’animo. Ho sofferto anch’io quello che stanno soffrendo loro. Penso alla sofferenza di un generale dei carabinieri come Mario Mori che ha catturato Totò Riina e viene accusato, processato e condannato per un reato del genere. A lui va non solo tutta la mia solidarietà umana e la mia comprensione, ma anche la mia vicinanza come uomini delle istituzioni, quale sono stato io e quale è stato lui.

Un ribaltamento increscioso dei ruoli. Uomini delle istituzioni che si ritrovano sul banco degli imputati accusati da quella stessa mafia che hanno combattuto e anche, come nel caso delle generale Mori, sgominato. Come è scattato questo perverso corto circuito?

Faccio fatica a rispondere in poche parole a questa sua domanda. E’ una storia troppo lunga e complicata che non riguarda solo Mori e De Donno, ma anche Antonio Subranni. E’ stato anche lui Comandante dei Ros e anche lui ha dedicato la sua vita alla lotta contro il crimine e contro la mafia. Sono tutti uomini delle istituzioni che hanno servito il loro Paese, la loro Patria, l’Italia.

Li ha conosciuti?

Sì tutti, ma soprattutto Antonio Subranni. Ha solo due anni meno di me. Siamo stati per tanti anni insieme a Palermo. Io ero allora il capo della Squadra Mobile, lui il Comandante del Reparto Operativo dei carabinieri. Ci incontravamo spesso anche a Roma quando era comandante del Ros.

Un uomo al di sopra di ogni sospetto per come l’ha conosciuto lei?

Io non ho mai sentito nulla contro di lui. Qualcuno lo ha addirittura accusato di essere affiliato alla mafia. Sorgono grandi punti interrogativi e una domanda su tutte: ma perché succede questo?

Perché succede questo? Perché la sua vita è stata da un giorno all’altro stravolta e fatta a brandelli?

Pensavo, se è per questo, che ogni mia speranza fosse destinata al fallimento, fino a quando non ho ottenuto giustizia nel 2014 grazie a una sentenza della Corte Europea per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, che ha condannato l’Italia, il mio Paese, la mia Patria, per avermi sottoposto a una pena inumana e degradante, in palese violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea. Nel 2017 la prima sezione penale della Corte di Cassazione si è conformata alla sentenza della Corte Europea e ha dichiarato la mia condanna ineseguibile e improduttiva di effetti penali.

Nel 2017 lei aveva 86 anni. Non tutti riescono a resistere prima che sia fatta giustizia…

La mia battaglia e la mia tragedia giudiziaria sono durate ventinove anni. Il 2 settembre compirò 90 anni. Un terzo della mia vita, dai miei sessanta anni ai miei novanta, se n’è andata fra incartamenti, aule di giustizia e carcere militare. Sono stato privato della libertà per otto anni, di cui la metà trascorsi in carcere e l’altra metà agli arresti domiciliari. Otto anni sono tanti. Specie quando la pena da scontare è ingiusta, come ha dovuto riconoscere e sancire la Corte di Cassazione.

Che cosa adirebbe a Mario Mori, ad Antonio Subranni e a Giuseppe De Donno, se li avesse in questo momento davanti a lei?

Direi loro di avere perseveranza, tenacia, coraggio e di considerarsi ancora uomini delle istituzioni italiane, degni, come sono, di uno dei più grandi e civili Paesi del mondo, della nostra Italia e della nostra patria.

La ringrazio di cuore.

Aspetti, la prego. Lei deve aggiungere che queste parole non provengono solo da un uomo che ha patito sofferenze analoghe a quelle che hanno patito e stanno patendo i tre uomini delle istituzioni, su cui pende la minaccia della conferma di una sentenza di condanna con un’accusa infamante. Provengono da un uomo che ha sempre avuto, da poliziotto, una grande ammirazione per l’Arma dei carabinieri, la Benemerita, a cui hanno appartenuto e apparterranno per sempre tutti quelli che la hanno fedelmente servita.

Come Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno?

Come loro. E come tantissimi altri.”

di Antonello Sette

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