Intervista esclusiva SprayNews a Saverio Romano, ex deputato ed ex ministro dell’Agricoltura

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AgenPress. “A Calogero Mannino ventisette anni sotto processo, con un’accusa infamante, non glieli restituirà mai più nessuno”. “Calogero Mannino è stato vittima, come tanti altri, del corto circuito, che colpì la giustizia italiana nel 1992, da cui non siamo ancora usciti”.

Dottor Romano, non le chiedo di tornare a un passato, che vuole comprensibilmente lasciarsi alle spalle. Un’accusa di associazione mafiosa, seguita da una sentenza di assoluzione, senza se e senza ma. Può, forse, capire, però, meglio di altri, che cosa sta provando in queste ore Calogero Mannino, parlamentare per una vita e più volte ministro della Repubblica, assolto in via definitiva, dopo un calvario segnato dall’accusa infamante di essere in combutta con la mafia, durato quasi trenta anni, più di un terzo della sua vita

Mi limito a dire che un giudice a Berlino, quasi sempre, lo si trova, ma, quando è così lungo il percorso, tornano attuali le parole di Cesare Beccaria, il grande giurista, nonno di Alessandro Manzoni, che, circa duecentocinquanta anni fa, scrisse che il processo è, di per sé, una condanna e, quando è lungo, è una lunga condanna.

Lei, dopo la sua assoluzione, pubblicò un libro intervista che si intitolava “La mafia addosso” …

Sono passati dieci anni, diciamo che non è cambiato molto. In Italia, anche se finisce per essere assolta, una persona, che ha dovuto affrontare un lungo processo, è comunque stata condannata. Non è solo il contesto civile, ma anche quello giuridico, a espellere chi si trova sotto la lente di ingrandimento della giustizia. Pensi a tutte le situazioni, che sono codificate, in nome della reputation. Non si può, neppure, aprire un conto in banca.

Che cosa si prova a ritrovarsi nella condizione di chi è di fronte a un’accusa infamante?

Si vive in una condizione di inabilità, non solo temporanea, che lascia strascichi, anche dopo.

Lei avverte ancora questi strascichi?

No, francamente e per una ragione molto semplice. Io ho vissuto quella stagione con il piglio di chi sapeva di avere ragione e cercava solo un giudice che gliela desse. Anche se, è ovvio, mi sono sentito anch’io aggredito. In Italia anche un avviso di garanzia è un’aggressione. E’ stata concepito, come una tutela e, invece, nel costume, anzi nel malcostume, italiano, diventa, di fatto, una sorta di gogna, anche perché, mediaticamente, l’indagato viene regolarmente indicato come la persona, contro cui si concentrano i sospetti.

Torniamo a Calogero Mannino. Quale tumulto di sensazioni lo sta travolgendo in queste ore. Felicità, rabbia, rancore?

Calogero Mannino sa bene, e io lo capisco perfettamente, che ventisette anni sotto processo non glieli restituirà più nessuno.

Ci vorrebbe più prudenza?

Ci vorrebbe celerità nei processi, ci vorrebbero tante cose, a partire da una riforma della giustizia, che non c’è mai stata.

Ci vorrebbe il ripristino della responsabilità dei giudici?

Il concetto del potere implica, di per sé, quello della responsabilità. Nel caso dei giudici, questa implicazione è del tutto assente.

Una grande ingiustizia?

Forse, la sua è un’esagerazione. E’ solo un corto circuito, che ha colpito la giustizia italiana nel 1992. Un corto circuito, da cui non siamo più usciti. E’ qualcosa, che ritorna. Sempre.

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