AgenPress – “Lo facciamo chiamare lo portiamo in campagna e lo scanniamo come un vitello” spiegavano i gregari al boss come scoperto dalle microspie piazzate dai carabinieri nell’ambito dell’indagine Persefone volta a smantellare la riorganizzazione di Cosa nostra in provincia di Palermo, riuscendo a sventare un omicidio di mafia.
Un uomo, nonostante gli “avvertimenti”, aveva continuato a sfidare i vertici mafiosi. Così i militari del comando provinciale di Palermo hanno eseguito un provvedimento di fermo emesso dalla Direzione distrettuale antimafia nei confronti di 8 indagati, accusati a vario titolo di associazione mafiosa e finalizzata al traffico di stupefacenti, detenzione e vendita di armi clandestine, estorsione, lesioni aggravate, maltrattamenti, reati aggravati dalle modalità mafiose.
I boss e i gregari infatti da tempo avevano ripreso il controllo di tutte le attività criminali e non solo, soprattutto assumendo direzione delle piazze di spaccio di stupefacenti, considerate principale fonte di reddito, ma avevano ricominciato a praticare estorsioni a tappeto e rivendicato un ferreo controllo del territorio. Proprio a conferma della sua forza, secondo gli investigatori, il boss Massimo Ficano aveva deciso di punire Fabio Tripoli, un pregiudicato che in stato di ubriachezza si era permesso di sfidare pubblicamente il capo mafia.
L’inchiesta è coordinata da un pool di magistrati con a capo il procuratore aggiunto Salvatore De Luca. I carabinieri del nucleo investigativo – attraverso intercettazioni ambientali, telefoniche, telematiche e veicolari – hanno delineato il nuovo organigramma della famiglia mafiosa. I militari sono riusciti a ricostruire gli interessi dell’organizzazione nel traffico e spaccio di stupefacenti, nella gestione dei centri scommesse e nelle estorsioni. Nel corso delle indagini è stato accertato che il capo della famiglia mafiosa aveva disponibilità di armi ed è stato anche individuato un imprenditore edile, ritenuto storico prestanome dei vertici della famiglia mafiosa.