Il 22 Agosto del 1978 ci lasciava Ignazio Silone. Dall’Abruzzo alla libertà come uscita di sicurezza. La grandezza di uno scrittore

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AgenPress. Ignazio Silone scrisse in Uscita di sicurezza: “Tutto quello che m’è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia viaggiato e vissuto a lungo all’estero, si riferisce unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui. È una contrada, come il resto d’Abruzzo, povera di storia civile, e di formazione quasi interamente cristiana e medievale. Non ha monumenti degni di nota che chiese e conventi. Per molti secoli non ha avuto altri figli illustri che santi e scalpellini. La condizione dell’esistenza umana vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi è sempre stato considerato come la prima delle fatalità naturali; e la Croce, in tal senso, accolta e onorata. Agli spiriti vivi le forme più accessibili di ribellione al destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo e l’anarchia. Presso i più sofferenti, sotto la cenere dello scetticismo, non s’è mai spenta l’antica speranza del Regno, l’antica attesa della carità che sostituisca la legge, l’antico sogno di Gioacchino da Fiore, degli Spirituali, dei Celestini”.

La terra, le radici, il senso di appartenenza costituiscono per Ignazio Silone (1900 – 1978) non solo un riferimento esistenziale ma definiscono quella poetica dell’essere ben sottolineata nelle sue opere. Natalia Ginzburg in una sua prosa dedicata all’Abruzzo dal titolo: “Inverno in Abruzzo” in Le piccole virtù scrisse: “In Abruzzo non c’è che due stagioni: l’estate e l’inverno. La primavera è nevosa e ventosa come l’inverno e l’autunno è caldo e limpido come l’estate. L’estate comincia in giugno e finisce in novembre. I lunghi giorni soleggiati sulle colline basse e riarse, la gialla polvere della strada e la dissenteria dei bambini, finiscono e comincia l’inverno. La gente allora cessa di vivere per le strade: i ragazzi scalzi scompaiono dalle scalinate della chiesa”.

L’Abruzzo di Gabriele D’Annunzio. L’Abruzzo soprattutto di Ignazio Silone. Delle campagne che si rincorrono come deserti che non hanno pianura e le dune non sono di sabbia. Le case di terra dura, di pietre e di creta. I paesi della Marsica nella metafora di Fontamara. I paesi che hanno la loro parlata, la loro cadenza espressiva in un dialetto che è la lingua ufficiale.

In Fontamara si legge: “A nessuno venga in mente che i fontamaresi parlino l’italiano. La lingua italiana è per noi una lingua imparata a scuola, come possono essere il latino, il francese, l’esperanto. La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta, una lingua il cui dizionario, la cui grammatica si sono formati senza alcun rapporto con noi, col nostro modo di agire, col nostro modo di pensare, col nostro modo di esprimerci…”.

I cafoni di Silone vivono il paesaggio nel passaggio delle stagioni che diventano solitudine nello stare insieme, comprensione, maschere di un Sud che sembra raccontare una uguale storia. E il linguaggio diventa la comunicazione delle coscienze. La comunicazione degli animi. Ma non è così. Il Sud si definisce in tante storie. Dal mare alle colline.

In una lettera indirizzata a Gabriella Seidenfeld nel luglio del 1930 Silone parlando dei “suoi” cafoni avverte: “Credo che siano i primi contadini di carne ed ossa che appaiono nella letteratura italiana….”.

Dopo aver letto questo primo romanzo Thomas Mann ebbe a scrivere di Silone: “Vorrei dirle quanto l’apprezzo e la stimo come uomo e come artista, e con quanta profondità mi afferra e mi colpisce la serietà della sua vita, di cui ho potuto ascoltare recentemente qualche particolare più intimo, e come mi è caro prezioso conoscerla, cosa che verosimilmente non sarebbe stata possibile se entrambi i nostri destini avessero avuto un corso più piatto e comodo”.

L’Abruzzo di Silone ha la sua caratteristica e la si legge nelle stagioni, nel paesaggio, nella gente. Non si tratta né di realismo né di denuncia ma di una letteratura le cui immagini sono ormai memoria. Una letteratura, dunque, che non solo si confronta costantemente con la storia e con la vita ma è sostanzialmente una letteratura – vita.

In questo processo esistenziale e culturale un compito importante è rivestito dall’incontro che fa Silone. Infatti il suo rapporto con Don Orione è fondamentale sia per una comprensione del rapporto testè annunciato sia per una chiarificazione del suo ruolo di scrittore. Di scrittore che non abbandona mai il paese della memoria, il paese del tempo, il paese che lo ha visto crescere.

Ma c’è un altro rapporto che resta significativo e condizionante. Quello con la cristianità. Quello con il senso del religioso. D’altronde i contadini sono l’espressione di una religiosità profonda. Il loro mondo è il mondo dell’umanitarismo. Da qui quel socialismo umanitario tanto predicato da Silone dopo l’abbandono del comunismo. Quel “dio che è fallito” lo avvicina alla religiosità. La terra dei cafoni è trasmissione

Silone trova appunto nei valori cristiani quella tradizione che legge nel volto della sua gente. Don Orione lo instradò verso l’itinerario sociale che diventa anche itinerario religioso.

Lo scrittore  va letto attraverso i suoi testi. Non per questo si può cambiare il giudizio su Fontamara o su Uscita di sicurezza o su L’avventura di un povero cristiano. Non per questo Silone può essere messo in discussione come quel ricreatore delle metafore di un paesaggio che è vita e di un linguaggio che è la vera civiltà di quel popolo di cafoni. L’identità e la memoria dello scrittore  portano sulla pagina il sentimento delle radici che si traduce nel senso delle origini. Il suo paese è vita ma è anche traducibilità della vita in letteratura.

Silone raccoglie le memorie della sua terra, gli anni della sua infanzia, la paura di quel terremoto che lo lacerò nel profondo, quella cultura contadina e ne fa un attraversamento di testimonianza. La letteratura è la testimonianza che trasforma la realtà in memoria e la memoria nel recupero del senso dell’appartenenza. Quei luoghi diventano i luoghi dell’anima.

Albert Camus diceva di Silone: “Guardate Silone così legato alla sua terra, eppure così europeo”. Lo stesso Silone, in alcune pagine consegnate allo scrittore Francesco Grisi, affermò: “Gli abruzzesi han ragione di essere un po’ malcontenti per l’attribuzione all’Abruzzo del paesaggio arido e spoglio che il più sovente viene descritto nei miei libri. Hanno ragione. L’Abruzzo è una bellissima regione, ha montagne superbe, laghi quasi alpestri, marine incantevoli”.

Ritornano qui le parole della Ginzburg. Quelle immagini che si proiettano e vanno oltre ogni forma realistica. Quelle immagini che sono il portato di una rivelazione pur sempre letteraria ma pur sempre allegorica in una dimensione la cui storia, come proprio nella grande letteratura, cede il passo alla metafora che si raccoglie tra i segmenti onirici della parola.

La memoria per Silone è un tracciato indelebile che unisce il visibile con l’invisibile. I ricordi restano nell’anima oltre che nei luoghi dell’esistere e del vissuto. Ed è proprio il vissuto che si riempie di grandi tensioni liriche e umane.

Raccontando un viaggio in Palestina con la moglie annotò: “Quel giorno non c’era neanche un passante per strada: solo sotto Betlemme, incontrammo una donna vestita di nero, con un bambino in braccio, sopra un asinello polveroso che ci passò accanto senza guardarci. A mano a mano che ci inoltravamo per quella valle, io fui preso da uno stato d’animo assai strano. Era la prima volta che visitavo quei luoghi, eppure avevo l’impressione del già visto e vissuto. Non ero in grado di parlare, di fare conversazione. Finché, a un certo momento, mia moglie ruppe il silenzio per dire: ‘Ma questo è il paesaggio dei tuoi romanzi’. Bastò quello per chiarire lo stato di apprensione e stupore che era in me”.

L’immagine del paesaggio diventa così luogo dell’esistenza. Luogo interiore di un esistere che si attraversa nella forte consapevolezza di una identità. E Silone non faceva altro nei suoi libri che porre in evidenza questa appartenenza – identità che non assumeva soltanto una forma simbolica ma soprattutto un modo di vivere che si intrecciava con quel suo modo di essere.

Uno scrittore contro. Contro la politica dopo che c’è stato dentro tutto nella politica. Uno scrittore che, come ha scritto Carlo Sgorlon, “Era incapace di venire a patti con qualsiasi freddo calcolo politico… Era un socialista umanista e un cristiano senza dogmi e senza gerarchie”.

Ciò che lo contraddistingueva  era “un’etica irriducibile”. La stessa etica che lo condusse a non abbandonare mai il “paesamento” e il radicamento che si vivono nei suoi libri.

La sua ricerca sino all’ultimo è stata dedicata alla letteratura e sempre più ad un distacco completo dalla politica. L’utopia era la sua voce più alta. Quell’utopia che gli aveva fatto rompere ogni legame con la politica. In Uscita di sicurezza in riferimento al distacco dalla politica dirà: “Era meglio finirla per sempre. Non dovevo lasciarmi sfuggire quella nuova, provvidenziale occasione, quell’uscita di sicurezza. Non aveva più senso star lì a litigare”. Amava l’utopia. E sosteneva che: “La democrazia ha il dovere di rispettare l’utopia”.

Valori. Necessità di identità. Appartenenza a quella sua terra. Quel suo Abruzzo non era solo un riferimento fissato nello spazio e nel tempo. Era un religioso e singolare viaggio. Un viaggio verso una “nuova” Palestina. Quei luoghi e quei paesaggi restano una lunga memoria scritta e disegnata sulle pagine della vita. La letteratura è quel cammino lungo il quale si intrecciano metafora e realtà. Silone è uno scrittore che resta nella letteratura dell’identità. L’Abruzzo di Silone è anche la nostra terra. Terra di antiche eredità e di silenzi e antichi. In un percorso in cui la libertà è anima: “Libertà è la possibilità di dubitare, la possibilità di fare un errore, la possibilità di cercare e sperimentare, la possibilità di dire “No” ad ogni autorità – letteraria, artistica, filosofica, religiosa, sociale e anche politica” (Silone).

Era nato a Pescina, in Abruzzo, il primo maggio del 1900 e morto in Svizzera, a Ginevra, il 22 agosto del 1978.

Pierfranco Bruni 

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