Agenpress – Sono aumentati gli episodi di violenza sui medici ma l’80% delle aggressioni non viene denunciato. Gli psichiatri guidano la classifica dei camici bianchi più colpiti, seguiti dai colleghi del pronto soccorso. Questi i risultati dell’indagine del sindacato dei medici ospedalieri Anaao Assomed, condotta da gennaio a febbraio 2020 su 2059 soggetti.
L’analisi, condotta da gennaio a febbraio 2020, ha interessato 2059 soggetti, con una responsività crescente con il progredire dell’età. Il 40.8% di età compresa tra 55 e 65 anni, il 25.45% tra i 35 ed i 45, il 25.21% in età tra i 45 ed i 55 anni ed infine 8.55% tra i 25 ed i 35 anni. Il 56,10% dei responders è di sesso femminile, a dimostrazione di come il problema aggressioni sia più sentito tra i medici donna (nel 2018 era il 53%).
L’indagine ha visto la partecipazione di 19 regioni con percentuali di risposte variabili e picchi in Lombardia, Campania, Veneto, evidenziando un chiaro mutamento rispetto all’ultimo sondaggio del 2018. Solo il 21% delle risposte di oggi proviene dalle regioni del sud e delle isole, rispetto al 70% del 2018, mentre il 57% arriva dalle regioni del nord ed il 22% da quelle del centro. Questo dimostra che la violenza sugli operatori sanitari, per lungo tempo attribuita prevalentemente a regioni del sud Italia ed alle isole dove le situazioni socio-economiche e sanitarie sono più complesse, è ormai diventato fenomeno largamente diffuso su scala nazionale.
Il 55,44% dei responders ha affermato di essere stato personalmente vittima di violenza, in valore assoluto 1137 medici rispetto agli 832 del 2018, nel 76,52% dei casi di carattere solamente verbale.
Per quanto riguarda le discipline interessate dal fenomeno, l’86% degli psichiatri dichiara di aver subito aggressioni, il 77% dei medici di medicina d’urgenza, un trend decisamente in crescita in tali servizi, il 60% dei chirurghi, il 54% dei medici del territorio, il 40% degli anestesisti.
Il dato preoccupante è che il 79,26% degli operatori vittime di violenza non ha presentato denuncia, e che il 66% afferma di essere a conoscenza di episodi di aggressione ai danni di operatori, ciò dimostra che il fenomeno continua ad essere sottostimato. Il 23% afferma inoltre di essere venuto a conoscenza di casi da cui è scaturita invalidità permanente o decesso conseguenti ad episodi di violenza ai danni di operatori.
Alla domanda sulla conoscenza delle leggi attualmente vigenti in termini di prevenzione delle aggressioni, solo il 37% risponde in maniera affermativa mentre il 50% non conosce nemmeno il protocollo della propria azienda.
Per quanto riguarda le possibili cause alla base degli episodi di violenza ai danni degli operatori, secondo il 40% di coloro che hanno risposto, la causa principale risiede in fattori strutturali di natura socio-culturale, a dimostrazione che non bastano misure estemporanee per arrestare la spirale di violenza alla quale oggi assistiamo inermi. La platea degli intervistati è apparsa divisa sul ruolo degli operatori, tra il 40% che individua un approccio non idoneo da parte del medico o dell’infermiere, ed il 43% che nega a tale comportamento il ruolo di fattore scatenante.
Altro dato su cui riflettere è che solo nel 26% dei casi l’argomento viene trattato ai tavoli sindacali, e il 55% dei responders afferma di non essere a conoscenza della eventuale discussione, segnale di distacco dei colleghi anche dal soggetto che dovrebbe tutelarli.
Le possibili soluzioni.
Al netto di una mancanza di conoscenza dell’attuale legislazione, il 75%, dei responders pensa che l’introduzione della punibilità d’ufficio, come previsto nel Ddl in discussione in Parlamento, sia una buona misura deterrente. Ma sensazioni di paura, di scoramento e di difficoltà lavorative ormai insostenibili, portano gli intervistati a chiedere anche l’introduzione negli ospedali di posti di polizia (47%). Forte anche la richiesta di campagne di sensibilizzazione rivolte alla cittadinanza (44%) e di maggiori investimenti in termini di personale (51%) e strutture.
Il vuoto applicativo di norme pur esistenti, nonostante le sollecitazioni continue da parte di sindacati ed istituzioni, rende necessaria una maggiore consapevolezza del rischio da parte del management aziendale, che spesso lo sottostima o, peggio, lo ignora volutamente per non impegnare risorse nella sua prevenzione.
Vi è poi il tema del sovraffollamento del Pronto Soccorso, che risulta dall’indagine la struttura organizzativa con il più alto tasso di aggressioni verbali e fisiche, con percentuali insostenibili per chi vi lavora ,alla radice del burnout di medici e infermieri. Ma è tutto il sistema ospedale e la sua complessa organizzazione che deve farsi carico del pesante fardello del problema overcrowdin.
Occorre mutare velocemente sia l’attuale organizzazione delle cure, soprattutto in emergenza urgenza, sia il paradigma dell’accettazione del paziente, umanizzando l’accesso alle cure prima e più che le cure stesse. Umanizzare vuol dire valorizzare figure professionali che fino ad oggi sono state poco e male coinvolte nei percorsi di cure, quali assistente sociale e psicologo, che possono diventare strumento di rassicurazione durante l’attesa.
Ricordiamo,infine,che nessun intervento esonera i Direttori Generali dall’obbligo, in quanto datori di lavoro , di tutelare la sicurezza dei dipendenti, obblighi su cui il sindacato ha il dovere di vigilare segnalando eventuali omissioni o carenze.
I PRINCIPALI NUMERI DELLE AGGRESSIONI
86% psichiatria
77% pronto soccorso emergenza-urgenza
60% chirurgia
54% medicina territoriale
40% anestesia e rianimazione