AgenPress. Sono venuta diverse volte nella mia vita qui a Basovizza, a rendere omaggio a questo Sacrario, e ogni volta che l’ho fatto me ne sono andata con qualcosa di più nel cuore. Perché questo è un luogo del cuore, è un luogo che ti dona sempre qualcosa di prezioso. Un’immagine, uno sguardo, un’emozione, una storia da raccontare al ritorno a casa.
Sono venuta qui da ragazza, quando lo facevano in pochi e farlo significava essere additati, accusati, isolati. Sono tornata qui da adulta per celebrare finalmente il Giorno del Ricordo, quel Giorno del Ricordo che spazzava via, una volta per tutte, la congiura del silenzio che per imperdonabili decenni aveva avvolto la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo nell’oblio e nell’indifferenza. E torno qui oggi, con qualche ruga in più e con responsabilità sulle spalle che da ragazza non avrei mai immaginato che un giorno avrei avuto. E torno per assumermi un impegno, per assumermi un impegno solenne, e cioè fare la mia parte, perché venga trasmesso ai nostri figli quel testimone del ricordo che voi, con la vostra tenacia, con il vostro coraggio, con il vostro orgoglio avete consentito che ci venisse consegnato, perché i nostri figli a loro volta lo trasmettano ai nostri nipoti, affinché la memoria di ciò che è accaduto, in barba a chi avrebbe voluto nasconderlo per sempre, non svanisca invece mai.
Uno dei padri della nostra Nazione, Giuseppe Mazzini, diceva che “la Patria è la famiglia del cuore”. E se è così, ed è così, allora voi, che quella patria avete difeso e amato e così contribuito a costruire, siete la nostra famiglia. Siete madri, padri, sorelle, fratelli, nonni, zii, cugini, e i vostri ricordi sono i nostri ricordi, le vostre lacrime sono le nostre lacrime, le vostre storie sono le nostre storie.
È una storia di famiglia quella di Monsignor Ugo Camozzo, ultimo vescovo di Fiume italiana. Lasciando Fiume, per sfuggire ai controlli e alle perquisizioni della polizia titina, tagliò in tre pezzi il suo Tricolore e lo nascose in tre valigie differenti. Con la parte verde avvolse il calice, con la parte bianca un Vangelo, con la parte rossa una Bibbia. Arrivato in Italia, ricucì la bandiera e ricompose la sua Trinità d’italiano. Morirà da esule a Pisa e verrà sepolto con una croce e la bandiera di Fiume sul cuore.
È una storia di famiglia la storia di Angelo Adam, meccanico, ebreo. Sulla pelle un tatuaggio, il numero 59001, con cui i nazisti lo avevano marchiato dopo averlo deportato a Dachau. Da quell’inferno si era salvato e, una volta tornato a Fiume, aveva ripreso la sua attività sindacale. Qualcuno aveva provato a dirgli che quello che faceva poteva dare fastidio, però lui non aveva ascoltato. Il 4 dicembre 1945 i titini lo prelevarono con la forza, insieme a sua moglie. Di lui non si seppe più nulla e, quando la loro figlia cominciò a fare domande, sparì anche lei. E i loro corpi non sono mai stati ritrovati.
È una storia di famiglia, quella di Odda Carboni, 39 anni, impiegata. Prelevata e trascinata dai titini davanti alla foiba di Vines, sapeva quale fosse il suo destino, ma non voleva dare ai suoi aguzzini la soddisfazione di spingerla giù e allora si gettò nella foiba da sola, gridando: “Viva l’Italia”. E tanti altri sono morti gridando il loro amore per l’Italia.
È vero, noi oggi siamo qui per ricordare degli innocenti trucidati, certo, ma siamo qui anche per chiedere ancora una volta perdono a nome delle Istituzioni di questa Repubblica per il silenzio colpevole che per decenni ha avvolto le vicende del nostro confine orientale.
E siamo qui per rendere omaggio a tutti gli istriani, i giuliani, i dalmati, che per rimanere italiani decisero di lasciare tutto, case, beni, terreni, per restare con l’unica cosa che i comunisti titini non potevano togliere loro, e cioè l’identità.
Così, fiumani istriani e dalmati, pagando un prezzo altissimo, hanno deciso di essere italiani due volte, italiani per nascita e italiani per scelta. Hanno deciso di seguire il loro cuore, di portare con sé, oltre a un pugno di terra o qualche piccolo frammento dell’Arena di Pola qualcosa che nessuna polizia politica, nessun aguzzino può strapparti via, che è l’amore per ciò che sei, per la terra nella quale affondano le tue radici, per la famiglia che ti ha generato, per le tradizioni che ti hanno accompagnato. Perché ovunque ti troverai quella sarà la tua casa, non qualcosa che ti circonda, ma quello che ti porti dentro.
L’Italia a lungo non ha ricambiato quell’amore. Certo non lo fece sempre con quegli esuli che scappavano per ricongiungersi alla loro comunità. È stato citato, torna alla mente, il treno partito da Ancona nel febbraio del ‘47, che conduceva gli esuli partiti da Pola nei vari campi profughi. Quando quel treno si fermò nella stazione di Bologna, venne preso a sassate. Il latte che era destinato ai bambini, che erano già in stato di disidratazione, venne buttato sulle rotaie. Gli esuli vennero insultati, fu impedito loro di scendere da chi aveva come patria un’ideologia e considerava un tradimento preferire la propria appartenenza nazionale a quella ideologia.
Quel treno è stato rinominato il “treno della vergogna”, ma quando sarà finita questa cerimonia, noi ci recheremo nella stazione di Trieste per inaugurare un altro treno, un treno storico, simile a quello che all’epoca portò gli esuli nei vari campi profughi in Italia, che compirà un viaggio da Nord a Sud, non per riaprire ferite del passato, non per dividere ancora, ma per chiudere un cerchio, per sanare quella vergogna, per accompagnare idealmente quegli esuli in un’Italia che oggi conosce la loro storia e riconosce il loro sacrificio, e ricucire quel sentimento di solidarietà sul quale qualsiasi Nazione degna di questo nome si fonda.
È una solidarietà all’insegna della verità storica, che per noi è un patrimonio da condividere anche con i popoli delle Repubbliche di Slovenia e Croazia, con lo stesso spirito di pacificazione che ha portato le città di Gorizia e Nuova Gorizia a condividere la candidatura, e poi ottenere insieme, l’assegnazione a titolo di Capitale europea della Cultura del 2025.
Con la commemorazione di oggi e con l’inaugurazione del treno, noi celebriamo il ventesimo anniversario della legge 92/2004, che istituisce il Giorno del Ricordo. Fu una legge spartiacque, che ha permesso di scrivere pagine di storia che non erano mai state scritte e ha consentito in questi vent’anni di compiere tanti passi in avanti. È grazie a quella legge e alla tenacia di chi l’ha portata avanti, se oggi è normale parlare di foibe a scuola. È grazie a quella legge se oggi artisti del cinema e della tv rendono omaggio a quella vicenda, anche in prima serata, certamente sul servizio pubblico. È grazie a quella legge se la storia delle foibe e dell’esodo è entrata nei libri di storia, oggetto di ricerca e documentazione e approfondimenti.
E voglio anche ringraziare il Parlamento italiano che proprio in questi giorni lavora per rafforzare e implementare quella legge, perché certo si può sempre fare di più.
È grazie a quella legge, insomma, se il fiume carsico del ricordo è emerso in superficie, ha intercettato affluenti, è diventato forte, impetuoso e oggi risplende in tutta la sua bellezza alla luce del sole, una luce che nessun tentativo riduzionista, negazionista o giustificazionista di quella tragedia, che spesso ancora riemerge, potrà mai oscurare.
Una storia tutta italiana che noi vogliamo contribuire a perpetuare nel tempo, anche con la nascita del Museo nazionale del Ricordo. Museo che sorgerà a Roma, nella Capitale d’Italia, perché questa è una storia che non appartiene a una piccola porzione di confine o di quel che resta dell’esodo del popolo giuliano dalmata, ma è una storia che appartiene all’Italia intera e l’Italia intera deve avere la possibilità e l’occasione di dirvi grazie.