AgenPress. Porto dentro di me un ricordo infinito. Immenso come la memoria dei secoli tra le pagine delle civiltà. Ricordare è meno della memoria? Il ricordo è dentro la memoria. Ha attraversato la storia. È tempo di guardare oltre i vetri della propria coscienza.
A volte il respiro della notte diventa pesante. Bisogna non ascoltarlo. Le voci si fanno malinconia. Ci sono storie che si raccontano e racconti che non devono restare nella storia e non devono farsi storia. Il destino cammina tra le pieghe del tempo e tutto diventa verità o finzione.
Le parole diventano intreccio nei giorni tristi delle storie tragiche che hanno scavi di sangue. Io trascrivo tutto ciò che un giorno annotai su un quaderno mentre mio padre, lentamente, mi parlava. Il canto triste ritorna. Non si assenta dalla memoria.
“Sparano dietro i monti/colpi di mitra/urtano i tentacoli della morte./I comunisti./Massacrano./Fili spinati, legano i polsi, i piedi, tra le mani:/I titini comunisti,/i comunisti titani, nella rete degli italiani comunisti./Sparano/cuciono le mani con il filo di ferro, e il cuore è metallo di latta nella storia”.
Ci sono storie, altre storie che tracciano la tragedia e la tragedia non smette di scorrere come sangue oltre il ricordo stesso…
Ascolto!
Iliana: “Ti aspetto e se l’alba dovesse giungere prima di te mi metterò in cammino. Verrò a cercati…”.
Gabriele: “Non lo fare. Io ritornerò Non metterti in cammino. La strada è nella storia. Noi siamo i vinti e lo spazio del viaggio è senza geografia…”.
In una lettera indirizzata a mio padre, tra le pagine di un quaderno con la copertina nera, ho trovato un appunto.
Ho letto:
“In quei giorni fummo sradicati.
Chi rimase lasciò un urlo di sangue tra le carsiche rocce che la memoria inceppa al chiodo del cuore.
Ci furono i silenzi e le maschere che non smisero di tagliare le parole e fu la storia la colpevole realtà di una verità taciuta.
In quei giorni fummo sradicati nella voce e nel destino.
Altri, tanti altri i cui nomi sono nel disegno della tragedia
precipitati vivi nelle pietre della morte”.
…E c’era il vento.
Anche quel giorno. Era tempo di primavera. Il sole picchiava sui casolari della campagna dalmata.
La guerra era finita ma per Tito e la Jugoslavia comunista nulla era finito. Il collaborazionismo togliattiano era a conoscenza dei crimini.
Iliana per tutta la giornata era rimasta a tagliare l’erba che si era alzata oltre il porticato del giardino che circondava la casa. Gabriele studiava per definire la sua tesi di laurea.
Erano italiani. Non erano mai stati fascisti. Non avevano combattuto neppure la guerra partigiana. Innamorati dell’amore e l’idea di Patria costituiva la bandiera di un ideale nel nome della condivisione profonda dei valori cristiani.
Gabriele portava al collo la Croce di San Francesco d’Assisi.
Iliana si recava ogni mattina in una piccola chiesetta di campagna per pregare e affidarsi al dono della fede. Ogni mattina.
La guerra sembrava lontana o si immaginava o si pensava finita.
L’Italia era diventata repubblicana.
Una notte arrivarono nel recinto di casa due auto. Scesero le “armate rosse” nel nome del comunismo della libertà. Massacrarono conigli, galline e un cane che abbaiava più del dovuto venne sparato con un colpo alla testa.
Al rumore dello sparo Gabriele e Iliana si svegliarono improvvisamente. Fu un disastro. Il tragico. Si trovarono davanti al letto tre uomini armati di fucili e mitra con gagliardetti rossi.
C’erano tre titini e uno italiano.
L’italiano prese la parola: “Il tribunale comunista vi ha processato e vi ha condannato. Siete stati giudicati. Colpevoli”.
Li spinsero fuori dalla stanza.
Iliana era in vestaglia trasparente. Una vestaglia rosa e Gabriele aveva soltanto dei mutandoni. Li spinsero da una stanza ad un’altra.
A calci, pugni, sputi.
Iliana più volte inciampò sotto i calci dei tre gagliardetti rossi che con i fucili puntati spingevano i due “morosi”.
Qual era la loro colpa? Erano semplicemente ITALIANI.
Sul tavolo di cucina erano sparsi alcuni libri che servivono a Gabriele per concludere la tesi che aveva per titolo: “Dante nell’umanesimo della cultura”.
Strapparono i libri. Cartelle. Fogli. Giornali.
Condussero Iliana e Gabriele su un camion militare con una vessillo falce e martello nel rosso di una stella.
I comunisti titini e il comunista italiano ritornarono nella casa, ammucchiarono tutto al centro. Le poche sedie, i tavoli, indumenti, i libri e misero fuoco. Misero fuoco a tutto.
Al primo ricamo di fiamma Iliana gridò: “E’ tutto quello che ho”.
In lingua incomprensibile un titino, fucile in mano, sparò dei colpì dicendo: “Nelle fosse non ti serviranno più”.
Il camion partì. Iliana e Gabriele vennero legati con delle corde alle barre laterali interne del camion.
Giunsero in una zona rocciosa. Li fecero scendere. Vennero bendati.
Partirono due colpi di pistola dritti alle gambe di Iliana e Gabriele. Con un’altra corda vennero legati alla vita e furono buttati in una fossa tra le rocce. Lì c’erano altri corpi e i lamenti si intrecciavano con gli echi di altri lamenti.
Di Iliana e Gabriele non si seppe più nulla. Tuttora non sappiamo nulla.
Nella casa bruciata soltanto cenere. Cenere e vento.
Qualche tempo dopo, in estate, fu trovato un foglio ingiallito. Si era incastrato tra i rami di un uliveto. Portava un appunto: “Dante e la cultura dell’umanesimo”.
Erano semplicemente ITALIANI. Per anni nessuno si ricordò dei morti infoibati, anzi dei vivi infoibati per mano comunista.
La storia non si ripete ma la storia va raccontata.
Iliana e Gabriele sono rimasti intrappolati tra le foibe. Per amore e per l’Italia e per le nostre coscienze non vanno dimenticati.
Era la primavera e poi l’estate del 1947.
Una storia vera, una verità nella storia, un racconto tra i ritagli dei giornali?
Mio padre, tra i tanti racconti mi ha lasciato anche questo dettaglio di storia e di esistenza. Anche questo racconto mi ha lasciato mio padre…
Il tempo è una cifra che segna il nostro cuore…
Iliana: “Ecco ci siamo ritrovati. Ma siamo vento e cenere che racconta…”.
Gabriele: “La storia a volte racconta…. Ma molte volte dimentica…”.
Iliana: “Non dimenticare mai. La verità è un patto di sangue!”.
Ascolto ancora un triste canto che recita:
“Vivi/nelle foibe,/massacrano gli italiani./Pola, Istria Trieste,/come sanno di fuoco sangue/le rose di Danzica./Sparano i comunisti alla nuca./Quante urla nelle carsiche fosse./La menzogna è nella storia, e la storia recita la bugie”.
Ora il tempo è passato. Sempre passa il tempo e la memoria diventa di ghiaccio, ma quei massacri, quel genocidio hanno tagliato non solo la storia: “La storia raccontata è menzogna…”.
La menzogna ha maschere di ferro ma dell’oblio non ha senso parlarne. Il vento sventola sguardi.
Mio padre lentamente mi parlava.
Cosa sono state le Foibe?
Il massacro nei confronti di chi chiedeva il diritto di essere riconosciuto
come Italiano!
Ognuno di noi ha destini da raccontare. Ma ognuno di noi ha il diritto di testimoniarsi.
Chi ha vissuto e conosce ha il dovere di non tacere!
Mio padre non c’è più.
Le sue parole insistono come un tambureggiare nel mio tempo.
Echi. La storia diventa debole.
La verità è un patto di sangue! Ma cosa è la verità in un tempo di dubbio atavico. Commino tra le parole e la Dalmazia è filo di sangue che lega le rocce alla storia.
Vivere è smettere di indossare divise e di essere uomini e donne oltre il muro!