Le minoranze storiche in Italia tra antropologia e letteratura

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AgenPress. C’è un processo interessante che tocca due elementi significativi della cultura antropologica delle minoranze linguistiche storiche.

1. La presenza nella contemporaneità attraverso il filtro delle tradizione.
2. Le eredità che costituiscono un patrimonio sia immateriale sia di intreccia territoriali e geografici.

Le minoranze linguistiche storiche oggi costituiscono un serbatoio necessario per leggere o rileggere la carta non solo linguistica di una Nazione, ma definiscono i rapporti e i legami che una civiltà come quella italiana ha filtrato nel corso dei secoli. La lingua ha la sua radicale importanza ma ci sono elementi antropologici che si lasciano leggere come una vera e propria mappatura culturale e umana.

Tre esempi. I popoli Germani hanno una loro storia antica che si è intrecciata tra modelli identitari e letteratura. Così quella Franco – provenzale o quella Francese. I territori rappresentano un dialogo che mai separa e sempre unisce grazie ad un patrimonio di culture sommerse che si definiscono proprio ella dimensione dei beni culturali. La lingua italiana trova la sua maggiore forza non solo in una dimensione dove l’identità diventa fondamentale ma anche nel saper convivere con le ormai “indispensabili” contaminazioni. La tutela della cultura italiana deve confrontarsi costantemente con i risvolti letterari e storici che provengono da altre lingue e culture.

È un presupposto sul quale occorre riflettere non solo dal punto di vista strettamente linguistico ma anche antropologico. È un dato che risulta di estrema importanza soprattutto se si considera il fatto che la lingua è parte integrante di un modello di civiltà all’interno di processi anropologici. La storia d’Italia si è sempre espressa con le sue identità e la sua robusta appartenenza mai smettendo di compararsi con altre civiltà, con altre culture, con altre etnie. È naturale che la sua eredità va espressamente salvaguardata ma difenderla non significa non accettare o non “modulare” le contaminazioni che costituiscono una ricchezza nei valori prioritari di un confronto tra civiltà. Si tratta di uno dei punti focali di una discussione che frequentemente si avanza nella nostra contemporaneità.

La lingua italiana, e la sua cultura, non è minata dalle contaminazioni all’interno del territorio italiano. Piuttosto deve essere garantita all’esterno del territorio nazionale. D’altronde anche gli stessi dialetti hanno come riferimento sempre un ceppo madre che è, appunto, l’italiano. Il raccordo tra l’italiano e i dialetti (mi riferisco chiaramente ai dialetti e non alle lingue altre pur presenti sul territorio italiano) ha delle chiavi di lettura che restano ben sottolineate nella storia di una Nazione. La letteratura italiana non dimentica di confrontarsi, in molte occasioni (e direi spesso se si considerano alcuni scrittori e poeti), con i dialetti che nascono all’interno delle varie comunità.

Il dialetto, il più delle volte, è la rappresentatività di una comunità che diventa espressione di un vocabolario simbolico. Il caso di Pier Paolo Pasolini con il suo modello friulano è una testimonianza emblematica. Ma in questo caso si tratta di una vera e propria scelta tra l’italiano (lingua ufficiale) e il dialetto e non si avverte in Pisolini contaminazione alcuna. Anzi è il dialetto che prevale ma resta all’interno di un processo che pone all’attenzione quella cultura popolare che è una eredità di territorio, di geografia umana e di realtà storica.

In altri scrittori, invece, si avvertono delle vere e proprie contaminazioni. Contaminazioni che hanno una loro impostazione espressiva ma anche dei moduli linguistici all’interno della lingua italiana stessa. Il caso di Stefano D’Arrigo o il caso di Cesare Pavese che modula un fraseggiare, una parlata, una sintassi all’interno di un incontro tra lingua e dialetto. Non siamo all’impatto sperimentale – linguistico di Carlo Emilio Gadda, ma in Pavese si “consumano” quelle forme di una storicizzazione del dialetto all’interno dell’identità della lingua nazionale.

Un lavoro di grande portata in una impostazione di recupero delle realtà dialettali in un contesto di identità dell’italiano. Mi pare che sia una cifra di straordinaria valenza perché non depaupera assolutamente la lingua nazionale bensì la arricchisce con una “fisiologia” linguistica ricavata da modelli identitari locali. È naturale che la lingua italiana si è aperta e si è sviluppata nel corso dei secoli.

I popoli che hanno attraversato l’Italia hanno lasciato una loro eredità anche linguistica e sono stati depositari di culture. La nostra lingua si è sempre aperta ad una “civilizzazione” di comparazioni e di incastri espressivi.

Da questo punto di vista c’è stata una vera e propria storicizzazione di elementi grazie proprio alla presenza di diversi popoli sul territorio italiano. Ancora oggi ci sono termini, vocaboli, modi dire che hanno chiari richiami storici ma, come già si accennava, la letteratura ha dato il suo notevole contributo. Voglio qui citare l’esperienza dell’antologia degli scrittori americani che ha visto protagonisti da una parte Elio Vittorini e dall’altra ancora Cesare Pavese. Quegli scrittori americani tradotti in italiano hanno contribuito ad immettere nella letteratura italiana e quindi nella lingua italiana codici linguistici che sono prettamente angloamericani.

Credo che sia stato un riferimento da non trascurare l’impatto tra scrittori di lingua inglese e letteratura italiana. Ma siamo sempre dentro alla capacità di tenuta della lingua italiana la quale chiaramente va tutelata e non sacrificata, almeno in Italia, a trasmissioni linguistiche altre.

Ora si pone un’altra questione. In Italia insistono lingue e comunità provenienti da altri Paesi non solo europei. Nel confronto con altre identità e con lingue di altri Paesi l’italiano deve imporsi all’attenzione con la sua appartenenza. Un conto è realizzare un confronto con lingue di altri Stati un altro conto è permettere di a queste lingue altre di prendere il sopravvento sull’italiano in Italia. Attenzione. Si parla di vere e proprie lingue e non di dialetti derivanti da contesti italiani. È qui che la lingua italiana deve risultare garante di una civiltà e di una storia.

L’italiano in Italia deve restare lingua madre, lingua prioritario. Ma credo che il problema non si dovrebbe neppure porre restando all’interno dell’Italia. È naturale che ci sono aspetti antropologici o etno-antropologici che sono la risultante di altre civiltà presenti in Italia. Ed è un dato incontrovertibile che questi aspetti devono godere di una tutela ma la lingua italiana non deve essere messa in condizione di subalternità. È necessario soprattutto nella attuale temperie riflettere sul ruolo delle contaminazioni linguistiche che sono riferimenti non trascurabile ma queste non possono sostituirsi con i condizionamenti linguistici.

La lingua è l’espressione identitaria e in Italia non può che costituire la vera chiave di lettura di una civiltà sia attraverso modelli storici sia soprattutto attraverso una composizione di civiltà letteraria nella quale gli scrittori e i poeti risultano i veri protagonisti e i veri contaminatori. Tutte le testimonianze, tutti i reperti, tutte le presenze chiaramente materiali sono strumenti di verifica e di valutazione sul piano dell’indagine. Ciò si evidenzia man mano che la ricerca è andata avanti.

Una testimonianza diventa non solo una rappresentazione del territorio ma sostanzialmente una espressività di codici e di elementi etno – antropologici. All’interno di una tale riflessione le relazioni tra aspetto fisico del territorio e quello più direttamente antropologico delle culture sommerse che vi hanno abitato costituiscono il vero dato di una comprensione di ciò che si è manifestato in un determinato luogo.

Proprio per questo anche il riferimento archeologico e architettonico non vive di episodicità ma si caratterizza per la sua articolazione d’indagine e di continuità tra cultura di appartenenza, elementi ereditati, bagagli di contaminazione e ciò che è concretamente visibile. Non possono esserci via di mezzo almeno nella sostanza teorica. È, comunque, naturale che l’impatto che lo studioso vive è inizialmente pratico ma questa sua praticità è certamente dettata da basi teoriche in quanto la ricerca parte dalla conoscenza diretta di una questione ma il “viaggio” sul territorio si stabilizza su presupposti di analisi sul terreno.

Leggere il terreno – territorio significa non solo capirlo e conoscerlo dal punto di vista archeologico, storico e geografica ma significa altresì definirlo nella sua specificità culturale. Il luogo, dunque, è un territorio ben definito o meglio il territorio caratterizza un luogo. Ma sul luogo definito tale convivono fenomeni e fattori addirittura pre – archeologici o meglio tali fenomeni e tali fattori sono la risultante di una sistematica insistenza di civiltà e di insediamenti di popoli. I popoli insediati creano vita e la quotidianità porta a manifestazioni di relazioni concrete con il luogo.

I popoli che vivono si definiscono nei materiali che usano. I popoli che abbandonano un luogo o che scompaiano lasciano sempre tracce di materiali. Nel tempo delle contaminazioni i luoghi e i popoli sono sempre più espressione di civiltà. Una espressività che si sviluppa in un rapporto culturale ben definito che va nella direzione sottolineata. Il senso dell’etno – cultura trova proprio qui il suo punto di maggiore chiarificazione. Le minoranze linguistiche, in questo caso preciso, sono una interazione tra la storia e i modelli contemporanei. Soprattutto in un contesto in cui lingua e antropologia interagiscono e a loro volta si integrano. Tutto ciò è parte integrante di una minoranza etno-linguistica storica.

Pierfranco Bruni

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