Conte, Draghi e la lezione di Goria

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AgenPress. Ero un ragazzo democristiano quando l’Italia era governata da Gianni Goria, commercialista meno che cinquantenne di Asti. Era stato per anni il “golden boy” della sinistra democristiana del Nord, un misto di popolarismo piacione e competenza tecnocratica.

Il suo momento era venuto dopo le elezioni politiche del 1987, susseguite al lungo governo di Bettino Craxi, interrotto dalla rivendicazione democristiana di una ‘alternanza’ alla guida dell’esecutivo. Allora queste erano le usanze. Alle elezioni la Dc aveva retto, l’onda lunga socialista era stata poco più di una risacca, e Craxi dovette cedere alla Dc la guida del governo, puntando però su una figura di profilo minore, meno ingombrante di un De Mita o di un Andreotti. E nacque l’unico governo di Gianni Goria, carico come una portaerei di tutti i notabili democristiani, da Giulio Andreotti a Fanfani a Colombo a Donat Cattin. Rileggere su Wikipedia la composizione di quel governo mi dà lo struggimento di quando ad Avellino sfoglio l’album del matrimonio dei miei genitori.

Goria fu pari alla sua fama: veloce, tecnocratico, competente. Si circondò di gente giovane e attrezzata. Uno glielo presentò Bruno Tabacci, suo consigliere politico e già ras lombardo della sinistra dc: Tabacci introdusse alla corte di Goria il giovane Mario Draghi, già carico di onori curricolari nonostante la verdissima età.

Goria governò l’Italia per un annetto scarso, districandosi tra capricci socialisti e democristiani, e infrangendosi su un incidente parlamentare relativo alle scelte in materia di nucleare.

I corridoi di piazza del Gesù raccontavano altro, in verità. Capannelli di notabili dorotei sussurravano che quel premier alzava un po’ troppo la cresta: “è giovane e bello ma non si starà montando la testa? “ si chiedevano le vecchie zie Dorotee. E qua e là nel partito saliva l’angoscia per un capo di governo che convinceva ogni giorno di più, e – cosa supremamente vietata ai democristiani – piaceva persino alle donne.

Per Goria iniziò una vita grama che divenne tempestosa quando anche a via del Corso – sede del Psi – si scrutarono sondaggi favorevolissimi al premier di Asti. Erano gli anni in cui Bettino covava una riforma presidenzialista cucita addosso alla sua popolarità, figuriamoci se poteva accettare l’imprevisto di un premier democristiano più popolare di lui.

Le cucine socialista e democristiana prepararono il benservito a Gianni Goria, a meno di un anno dal suo giuramento. E Gianni tornò “il commercialista di Asti”, come lo chiamava Donat Cattin con la tipica sua diffidenza per chiunque entrasse in politica con fama tecnocratica.

Trentaquattro anni dopo si insedia a palazzo Chigi il più giovane e brillante collaboratore di Gianni Goria. Chissà se Mario Draghi avrà pensato all’analogia tra il suo mèntore democristiano e il suo predecessore grillino: come a Goria, anche a Conte è stato fatale lo ‘specchio delle sue brame’ che lo segnalava come il più popolare del reame grillino.

E puntuale è giunto lo sfratto, assai meno garbato di quello ricevuto da Goria, che rimase nel pantheon correntizio, e più tardi fu anche riportato al governo.

Passano le repubbliche, ma non i vizietti del ceto politico: se si accede al governo senza una propria truppa, è vietato essere popolari.

 

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